Historic, Archive Document Do not assume content reflects current scientific knowledge, policies, or practices. linK ilHili /T\T I ! B,sWl V.tìffe * ; •V ‘ ■ ■ »■;;»' "v» VOLUME LII. - 1941 xix fj§ ®Ì#I1 liliw ■ 'T lÉliÉlI ’ >$ |fg ■* v rf » J ^ ! ÌNDICE :ffP; „., Mpr t ‘ì> 4v LIMI ì;^ f; ,r ,,• ,’;'i. .••- • i ’■ ' V';.‘ c ; . YijjXjji « ATTI (memorie, note e comunicazioni) Zirpolo G. — Azione dell' acqua pesante sugli organismi. - 9. Ri¬ cerche sulRAnellide Amphiglena mediterranea Clpr. . . pag. 3 Zirpolo G. — Xantocroismo e metacromatismo in Hippocampus gut- tulatus . . • 1 1 Sorrentino S. — Cenno illustrativo sulle terre decoloranti „ 21 Fiore M. — A proposito di indizii di flora cretacea . . . . „ 33 ■ : ' r'ì Castaldi F. — Le terrazze della Penisola Sorrentina .... 41 Fiore M. — Nuova osservazione riguardante l’origine sporanoiale dei Conidii del genere « Aiternaria * e affini ..... 129 RENDICONTI DELLE TORNATE PROCESSI VERBALI Processi verbali delle Tornate del 1940 .... Elenco delle pubblicazioni pervenute in cambio pag. Ili V HIO-ì N't r\ ^ s- BOLLETTINO DELLA I1V NAJPOIvI VOLUME LII. - 1941 xix. (Pubblicato il 30 gennaio 1942-XX) NAPOLI - SYAB. TIPOGRAFICO NICOLA JOVENE - VIA DONN ALBINA, |4 740067 INDICE ATTI (memorie, note e comunicazioni) Zirpolo G. — Azione dell' acqua pesante sugli organismi. - 9. Ri¬ cerche sull ’A nel li de Amphiglena mediterranea Clpr. . . pag. 3 Zirpolo G. — Xanfocroismo e metacromatismo in Hippocampus gut- tulatus . . 1 1 Sorrentino S. — Cenno illustrativo sulle terre decoloranti „ '21 Fiore M. — A proposito di indizii di flora cretacea „ 33 Castaldi F. — Le terrazze della Penisola Sorrentina „ 41 Fiore M. — Nuova osservazione riguardante l’origine sporan Tale dei Conidii del genere « Aiternaria » e affini . 129 RENDICONTI DELLE TORNATE PROCESSI VERBALI Processi verbali delle Tornate del 1940 . pag. Ili Elenco delle pubblicazioni pervenute in cambio .... „ V BOLLETTINO DELLA SOCIETÀ DEI NATURALISTI Azione dell’acqua pesante sugli organismi. 9. - Ricerche sull’Anellide Amphiglena mediterranea Clpr. del socio Giuseppe Zirpolo (Tornata del 7 febbraio 1938) L' Amphiglena mediterranea Clpr. è un grazioso Andlide che vive comunemente nel golfo di Napoli fra le alghe littorali, a pochi metri di profondità. Per la sua particolare caratteristica sia nel movimento dei tentacoli che del corpo, sia per la sua mole , in quanto di esso si possono avere piccoli esemplari è un animale che si presta a ricerche del genere da me iniziate. Ho compiuto una serie di esperienze tenendo gli animali tanto in acqua pesante a concentrazioni varie, tanto in acqua distillata pura ed a varie concentrazioni con acqua di mare per studiare quanto mi son proposto sin dalle prime ricerche sull'abioticità o meno dell'acqua pesante. Esperienze con acqua pesante al 99,6 % Tre esemplari di Amphiglena sono messi in vaschetta conte¬ nente acqua pesante concentrata al 99,6%. Gli animali si contrag¬ gono fortemente, si muovono con moti spasmodici e poi, dopo cinque minuti, cadono paralizzati sul fondo della vaschetta, — 4 — Nei minuti successivi non noto alcun movimento : dopo sette minuti li riporto in acqua di mare pura. Gli animali restano sul fondo senza dare alcun segno di attività. Dopo dieci minuti li sti¬ molo con ago ma gli animali restano inerti e il loro corpo si va opacizzando, indice della morte degli animali. Compio un'altra esperienza mettendo in acqua pesante due esemplari più grandi, della lunghezza di un centimetro. Osservo lo stesso : gli animali non resistono in acqua pesante a cosi forte concentrazione. Ripeto una terza esperienza con un gruppo di tre esemplari uno di mm. 15, e due alquanto più piccoli, di 9 mm. ma gli effetti dell’acqua pesante sono sempre gli stessi. Ne deduco che gli animali non solo non resistono nel nuovo ambiente ma che l’acqua pesante ad alta concentrazione esercita su di essi effetti completamente de- leterii. Esperienze con acqua pesante al 75%. In una vaschetta contenente acqua al 75 °/0 metto tre esempla¬ ri di Amphiglena della taglia di 9 mm. Si agitano fortemente, con¬ traggono particolarmente i tentacoli arrotondandoli nella regione interna. Dopo 7 minuti, quando i loro movimenti si sono ridotti notevolmente li vedo giacere sul fondo immoti. Li stimolo ma non reagiscono. Dopo altri due minuti di permanenza li riporto in acqua di, mare pura. Gli animali si contraggono lievemente e dopo trenta secondi riprendono i loro movimenti. Nelle operazioni successivi vedo che gli animali si vanno ria¬ dattando al loro ambiente ma risentono purtroppo ancora dell’azione dell'acqua pesante. Nel giorno successivo dei tre esemplari due vivono ancora, però il colore del loro corpo è alquanto sbiadito, mentre l’altro è morto. Nel giorno seguente i due esemplari vivono ancora ma reagiscono poco agli stimoli, i tentacoli sono contratti ed il colore del corpo è sempre sbiadito. Nel giorno seguente li trovo morti. Comples¬ sivamente i due esemplari sono vissuti tre giorni ed uno un giorno. Metto altri due esemplari di Amphiglena in acqua pesante al 75% e noto come il comportamento è analogo a quello osservato per gli altri esemplari; la taglia dei due individui é di mm 9. Nel — 5 — giorno successivo li trovo disfatti sul fondo della vaschetta. Metto altri tre esemplari di otto millimetri in acqua pesante al 75%. Gli animali si agitano, si contraggono, estendono i tentacoli, ma dopo tre minuti cadono sul fondo della vaschetta paralizzati. Essi non rispondono agli stimoli. Li riporto dopo dieci minuti in acqua di mare pura. Dopo sette minuti riprendono i loro movimenti e si vanno riadattando al loro ambiente. Vivono ancora altri due giorni ma poi li trovo disfatti sul fondo della vaschetta. Nell’acqua pe¬ sante concentrata a 75 % X Amphiglena mediterranea non vive bene, anzi l’acqua pesante agisce abbastanza sfavorevolmente. Esperienze con acqua pesante al 50 %. Cinque esemplari di taglia variante da 6 a 10 mm. sono messi in una vaschetta contenente acqua pesante concentrata al 50%. Gli animali reagiscono con contrazioni vive ma poi cadono sul fondo dove non restano immoti. Dopo cinque minuti gli animali si muo¬ vono con certa vivacità, reagiscono agli stimoli e vanno adattan¬ dosi al nuovo ambiente. Nel giorno successivo vivono bene, reagiscono vivacemente agli stimoli e non presentano apparentemente danno nel loro corpo. Nel terzo giorno li trovo sui fondo della vasca alquanto flac¬ cidi, poco vivaci ma vivono tuttora. Nel quarto giorno li trovo disfatti sul fondo della vaschetta. L' Amphiglena mediterranea è vissuta nell’acqua pesante con¬ centrata al 50 % per tre giorni. Esperienze con acqua distillata. Un esemplare di Amphiglena è messo in vaschetta contenente acqua distillata. L'animale si agita lievemente, ma dopo circa cinque minuti resta sul fondo del vaso quasi paralizzato. Dopo sette minuti dacché trovasi in questo stato lo riporto in acqua di mare. L'animale non si agita, bensi resta inerte sul fondo della vasca. Dopo dieci minuti lo eccito ma l'esemplare non rea¬ gisce allo stimolo, anzi il suo corpo diventa opaco, gonfio : è morto. Un altro esemplare di maggiore taglia, e cioè di cm. 1,5 portato in acqua distil'ata si agita allo stesso modo lievemente, contrae e distende i tentacoli. Dopo tre minuti lo trovo paralizzato su! — 6 — fondo della vaschetta. Lo riporto in acqua di mare. Si agita appe¬ na : dopo tre minuti la regione codale si agita fortemente mentre la regione cefalica resta quasi inerte e cosi rimane per varie ore dopo si opacizza il corpo e muore. Da quanto sopra e stato esposto, appare evidente che l'acqua pesante è abiotica per l’ Amphiglena nelle proporzioni del 99,6 % come lo è pure l'acqua distillata e ciò per ragioni di natura chi¬ mico-fisica. Parimenti nell’acqua pesante a concentrazione al 75% gli ani¬ mali resistono per maggior tempo ma se vi restano per un lungo periodo muoiono. Ma ove sono riportati nell'acqua di mare ripren - dono le loro attività vitale lentamente, il che dice che risentono dell'azione dell’acqua pesante. Nell’acqua pesante concentrata al 50 °/0 vivono fino a tre giorni. Tutte queste osservazioni dimostrano che l'abioticità del- V Amphiglena nell' acqua pesante a concentrazioni varie dipende un processo sopratutto chimico-fisico che determina il fenomeno, più che dalle tossicità dell'acqua stessa. Napoli, Stazione Zoologica. RIASSUNTO L'A. seguita le ricerche sull'azione deH'acqua pesante sugli organismi. Con il presente studio compiuto su Amphiglena mediterranea Clpr. Anellide del golfo di Napoli conferma che l'abioticità dell'acqua pesante dipende da un fenomeno chimico fisico ma non da tossicità dell’acqua. — 7 — B I ELIOGRAFIA 1937. Zirpolo, G. — L'acqua pesante in biologia. Riv. Fis. Mat. Se. Nat., Voi. 10, p. 372 e 406. 1938. — — Ricerche sull'azione dell'acqua pesante sugli organismi. 1. Notizie preliminari. Boll. Soc. Nat., Voi. 49, p. 137. 1938. — — 2. Ricerche sulla discomedusa Nausitoè panciata. Ibidem, p. 123. 1938. — — 3. Ricerche sull ’Hydra viridis. Boll. Zool , Ann. 9, p. 73. 1938. — — 4. Azione sugli elementi germinali di Paracentrotus lividus. Arch. Zool. Hai., Voi. 25, p. 437-456. 1939 — — 5. Azione su Nereis damerilii. Boll. Soc. Nat., Voi. 50. 1939. — — 6. Ricerche su Capitello capitata. Ìbidem, Voi. 50, p. 41. 1939. — — 7. Ricerche sullo sviluppo delle piante. Riv. Fis. Mat. Se. Nat , Voi. 13. 1940. — — 8. Ricerche sui molluschi gastropodi Bettium scambrum Olivi e Phyllirhòe bucephala Péron et Leseur.esui molluschi pteropodi Creseis acicala R a n g . e Cleodora piramidata L. Boll. Soc. Nat. Voi. 5, p. 3. 1938. — — Studi sulla bioluminescenza batterica XIV. Azione dell'acqua pe¬ sante. Boll. Zool., anno 9,. — — L’uso dell’acqua pesante quale indicatrice in biologia. Riv. Fis. Mat. Se. Nat., Voi. 15, n. 4. 1941. X antocroismo e metacromatismo in Hippocampus guttu/atus. del socio Giuseppe Zirpolo (Tornata dell' 11 giugno 1940). Varii sono i casi di xantocroismo e metacromatismo nonché di albinismo riscontrati nei Pesci. Uno dei primi casi fu registrato da Brandt nel 1850. Egli osservò un parziale albinismo in Acipenser ruthenus. Nel 1874 Fischer descriveva un caso di flavismo in Gobitis barbatula. Goode, nel 1875, in due lavori si occupava di pesci albini e dell'albinismo nei pesci. Bolan nel suo lavoro pubblicato nel 1881 dice che, nel luglio 1879, nell'Elba, in vicinanza di Amburgo, fu trovato un esemplare di Anguilla vulgaris di colore giallo. Successivamente altri tre ne furono trovati il 14 settembre ed il 9 ottobre dello stesso anno. Nell'estate del 1880 fu rinvenuta un'anguilla di colore giallo e il 5 maggio altri due esemplari e poi successivamente fino al 13 agosto altri sette. Avevano tutti colore giallo-limone. Gli animali di colore giallo rimasero inalterati fino al 20 set¬ tembre 1880. Quelli giunti neH’acquario nel corso del 1879 cambia¬ rono neH’inverno di colore, cioè divennero quasi bianchi (leucotismo). 2 — lò¬ to stesso Bolan dice che Siebold nel " Susswasserfische von Mitteleuropa „ a pag. 18 riferisce su di un Cobitis barbatula di colore rossastro e con pupilla rossa e cita inoltre Baldner che descrive una Lota vulgaris ed un Cobitis barbatula dello stesso colore. Più tardi Gadeau de Kerville (1895) descriveva una Platessa vulgaris raccolta sulle coste della Normandia ed un Flesus vulgaris rinvenuto nell'Estuario della Senna con parziale albinismo. Festa nel 1900 parlava di un caso di icterismo in Petromyzon pianeri pescato il 31 dicembre 1899 a Cercenasco (Vigona). La parte superiore del capo era di color giallo cadmio, il resto della parte superiore del corpo di colore giallo indiano ed i lati de corpo giallo cromo. Egli dice che l’albinismo è molto raro nei Pesci, e molto più Ticterismo. In realtà esso è raro ma non cosi come riteneva Festa. Brunn (1901) descriveva un parziale albinismo in Acipenser e Boecke, nel 1903, egualmente in Rhombus maximus. Una nuova forma di metacromatismo veniva osservata in Pleu • ronectes italicus da Ninni (1903) il quale, successivamente, nel 1906 e nel 1908 si occupava ancora di forme di metacromatismo osser¬ vate in pesci raccolti nel mare e nella laguna di Venezia. Dean (1903) si è occupato di albinismo, parziale albinismo e policroismo nei seguenti Pesci : Homea stouti raccolto a Montrey (California) con chiazze bianche e Homea polytrema raccolto a Valparaiso nel Cile tutto chiazzato in bianco, Homea burgeri rac¬ colto a Misaki (Giappone) da Nahidè Jatsu fra 800 esemplari tutti bianchi. Kershaw (1904) ha descritto varietà nel colore in Anguilla au¬ strali. Bellotti (1906) ha dato notizia di una notevole varietà di colorazione in una Tinca comune. Su di un Pleuronectes italicus Gunther metacroico rac¬ colto nella laguna di Venezia si è occupato il Trois, nel 1908, come pure di un esemplare di Anguilla metacromatica e successivamente nel 1909 di un Lophius piscatorius proveniente dalle pescherie di Arcachon con colorazione anormale della pelle. Nel 1911 Schreitmuller descriveva casi di xantocroismo e di albinismo nei Pesci e Riedl di xantocroismo in Phoxinus. Norman (1926) in una revisione dei Rhombosoleinae parla di doppia colorazione riscontrata in alcuni esemplari. — 11 — Nel 1927 Hora si occupa di un Clarias batrachus di colore bianco e Koller di un tilurus glanis tutto bianco. Nel 1929 Sigalas descrive una sogliola con facce di due co¬ lori, caso identico osservato e descritto da Stiasny (1930) in Solea vulgaris. Warren nel 1932 studiò in Fundulus i xantofori con speciali considerazioni sulla loro fase di contrazione ed espansione. Pappenheim (1933) s’è occupato del leucismo nella Trota. Nel 1934 Gudger descrisse un Pseudopleuronectes amertcanus con doppia colorazione. Schreitmuller riferisce di un Xiphopho- rus helleri tutto bianco e di un Lebistes reticulatus giallo e Souché riferisce di un Flesus vulgaris a pigmentazione anormale. Kosswig (1935) si occupa di Macrodopus viridi auratus Lacé pede e di Xiphophorus helleri Heckel di colore bianco. Nello stesso anno 1935, Goff descrisse un caso di melanismo in Lepidosteus osseus, Gudger parla di doppia colorazione osservata in Paralich- thys dentatas , in Limanda ferruginea ed Hippoglossus hippoglossus e Schreitmuller descrive un Pleurodeles Walthi con parziale al¬ binismo. Da quell’epoca non vengono registrati, per quanto è a mia conoscenza, nella bibliografia altri esemplari presentanti tali , varia¬ zione di colore. Ma da quanto sopra ho detto appare evidente che i casi di albinismo di xantocroismo, di metacromatismo, di bicroismo e po- licroismo non sono scarsi. Sull' Hippocampus nessuna notizia al riguardo, ecco perchè avendo rinvenuto due esemplari l’uno completamente xantocroico l'altro parzialmente ho creduto opportuno darne notizie per la novità del reperto e per arricchire la casistica, onde poter avere più estesa conoscenza di tali variazioni cromatiche rinvenute nei pesci per potere poi, in seguito, sintetizzare e concludere sui vari fatti con¬ statati. — 12 — Descrizione degli esemplari Esemplare xantocroico. Il primo esemplare, pescato fra 30 esemplari provenienti dal Golfo di Napoli tutti di colore normale, raggiungeva la lunghezza di circa ó cm. a partire dalla cresta cefalica all’ estrema punta caudale. Fig. 1. - Esemplare xantocroico. Tanto la regione cefalica che la caudale nonché le pinne dorsali, pettorali ed anali non presentavano nulla di anormale. L’a- nimale era un esemplare comune per la costituzione generale del corpo. La sua peculiarità consisteva nell'avere tutto il corpo co¬ lorato completamente in giallo. Osservata la superficie del corpo — 13 — con lente d’ingrandimento non si vedevano che cromatofori di tal colore: in qualche punto del corpo, come nel dorso, nella regione laterale della coda, era di un giallo alquanto più intenso, mentre nelle altre parti era più sbiadito e qualche lieve chiazza della regione laterale del torace e dell’addome si presentava bianca. L’animale fu tenuto in acqua contenente del formolo al 10 %. Con mia sorpresa potetti notare nei giorni successivi al rinveni¬ mento che il colore giallo andava sbiadendosi fino a che l’esem¬ plare diventa completamente bianco. Se non avessi raccolto i dati riguardanti il colore si sarebbe potuto pensare ad un caso di puro albinismo in Hippocampus guttulatus. Esemplare metacromatico. L’altro esemplare presentava un metacromatismo ben evidente. L’animale era più grande, lungo circa 7 cm. a partire dalla cresta cefalica aH'estrema punta codale. Esso si presentava di colore giallo, però alcune zone del corpo erano di colore bruno e propriamente la cresta cefalica presentava una macchia di colore bruno di due millimetri di larghezza per due di lunghezza. La regione dorsale presentava una macchia bruna nella re¬ gione pettorale, e propriamente verso la regione del collo, della grandezza di 5 millimetri ed un’altra molto più grande nella regione laterale alla pinna dorsale larga circa 7 millimetri. Inoltre tutto il dorso a partire dalla regione del collo fino alla pinna dorsale era completamente bruna. Così parimenti i primi 5 o 6 raggi dei 20 erano macchiettati di bruno. Una piccola macchia lievemente brunastra trovavasi in vici¬ nanza della tasca incubatrice. La regione codale si presentava quasi tutta bruna eccetto una piccola porzione in vicinanza della tasca incubatrice di color bianco giallastro, una regione mediana interna di circa tre milli¬ metri di colore giallo e la punta terminale della coda compieta- mente pur essa di colore giallo per circa 5 millimetri. La regione terminale del rostro, nella parte superiore era brevemente picchiettata in bruno. Tutto il resto del corpo era di un bel colore giallo, — 14 — Anche questo esemplare fu tenuto in acqua di mare e formolo al 10 % ed anch’esso nei giorni successivi andò sbiadendosi fino a Fig. 2. - Esemplare metacromatico. che divenne biancastro nelle regioni in cui era giallo mentre le macchie brunastre restarono inalterate. A che cosa sia dovuto lo xantocroismo e il metacromatismo negli organismi non è possibile deciderlo. Nelle piante il fenomeno d'ingiallimento è un fenomeno pa¬ tologico di natura ipoplastica. E’ detta clorosi (Sorauer) l'ingial¬ limento innato , cioè preesistente nelle gemme e Utero 1' in¬ giallimento successivo delle foglie. L’uno e l’altro, a differenza — 15 — dell'albinismo non è trasmissibile, ma lo si ascrive fra i fenomeni transitorii. Negli animali i casi di albinismo sono stati senza dubbio i più studiati e sono stati considerati come caratteri recessivi. Il flavismo o ingiallimento si può considerare come uno sta¬ dio intermedio fra colore naturale e albinismo, come si verifica negli uccelli. Secondo alcuni il xantocroismo e albinismo sarebbero forse dovuti ad alterazione delle glandole endocrine. E’ noto che in seguito ad ipersecrezione della tiroide si ha una depigmentazione e successivo imbianchimento. Sono note le esperienze compiute da Giacomini. Nutrendo questi dei pulcini con tiroide di bue notò discromia o più precisamente una leucocromia, un imbianchimento delle penne, ossia un profondo disturbo nelle formazione del pigmento, per cui questo viene a mancare (atrofia pigmentare) e quindi le nuove penne sono in parte bianche ed in parte grigie o grigio-bluastro. E' difficile determinare il meccanismo intimo che determina la de¬ pigmentazione o scomparsa del pigmento. Forse ciò potrebbe at¬ tribuirsi, secondo Giacomini, a processi di eccessiva ossidazione o ad un'aumentata secrezione di adrenalina provocata dall'ipertiroi- dismo sperimentale, dall’eccesso di ormone tiroideo ingerito , poi chè la maggiore quantità di adrenalina elaborata eleverebbe il tono dei nervi simpatici inibitor i della formazione del pigmento. Una terza ipotesi secondo lo stesso A. è che per 1' azione tossica deiripertiroidismo sperimentale si abbia un'alterazione dei nervi simpatici regolatori della pigmentazione. D'altra parte lo stesso Giacomini già nel 1913 osservò che nutrendo gli avannotti di trote {Salmo fario ) con tiroide di bue essi assumevano un colorito chiaro. Un caso di depigmentazione nella specie umana fu riscontrato pure dal prof. Maiocchi nella sua Clinica a Bologna e riferito al Prof. Giacomini che lo riporta nello stesso lavoro e cioè che una giovane ventenne affetta da disturbi pluriglandolari e forse da distiroidismo e che aveva i capelli neri presentò la maggior parte dei capelli bianchi con una disposizione simmetrica delle ciocche bianche. Successivamente il Giacomini ha pubblicato nu¬ merosi lavori nei quali ha sempre confermate le sue ricerche pre¬ cedenti anche variandole ed in un lavoro del 1929 riferisce che le sue esperienze hanno avuto conferma dalle ricerche di numerosi 16 — autori stranieri, quali C. I. Parhon, Horning e ToRREy, Boris M. Zavadovky, Crew e Huxley, I. PoDHRADSKy e I. KRizENECKy. Evidentemente i fenomeni di xantacroismo, metracromatismo e albinismo, devono essere legati ad un’alterazione ghiandolare che si manifesta sul corpo intero o su parti di esso a seconda del tempo in cui l'increto ha avuto il tempo di agire. Nei due esemplari da me osservati uno completamente ingiallito e 1* altro parzialmente, credo trattarsi di alterazione di natura endocrina. L’ipotesi non è da scartarsi trovando un appoggio in ricerche collaterali : si potrebbero anche eseguire ricerche sperimentali nu¬ trendo con tiroide pesci di colore bruno o adoperando gli stessi ippocampi per poter addivenire a qualche conclusione definitiva. Napoli, Stazione Zoologica, novembre 1940 - XIX. RIASSUNTO L’A. espone i varii casi di albinismo, metacromatismo e xantocroismo riscon¬ trati nei Pesci. Descrive due esemplari di Mippocampus guttulatus che presentano xantocroismo e metacromatismo. Crede che il fenomeno derivi da disfunzione della ghiandola tiroide, in analogia a quanto è stato oscervato in altre specie animali. - il - BIBLIOGRAFIA 1852. Brandt, J. F. — Ueber Albinismus und seine abweichende Farbenspie* lart des Sterlàdt. (Acipenser ruthenus). Bull. Ac. Se. St. Petersburg, Voi. 10, p. 13-16. 1874. Fischer J. von. — Flavismus bei einer Schmerle Gobitis ( Nenia - chilus) barbatula. Zool. Garten., Bd. 15 p. 471. 1875. — — Albinoism in Fishes. Foresi und Strem. Voi 4 , p. 231. 1875. Goode, G. B. — Albino fisches. Anv. Natur. voi. 9. p. 517. 1881. B o 1 a n , C. C. H. — Ueber eine gelbe varietàt vom Flussaal Anguilla vulgaris FI. Arch. Naturgesch, Bd. 47 . Jarhg. I, p. 136-39 e Ann. Nat. Hist voi. 9, pag. 65-67 , 1882. 1888. Fischer - Sigwart. — Sur l'albinisme chez les larves de Rana temporaria avec quelques remarques sur l'albinisme en generai. Arch. Se. Phys. et. Nat. voi. 20. pag. 350. 1889. Cam erano, L. — Di alcuni girini albini e delle cause dell'albinismo. Bull. Mus. Zool. et Anat. Conip. R. Univ. Torino, Voi. 4, n. 64, pag. 1-4. 1893. Cunningham, M. A. and Mac Munn C. A. — On thè colo- ration of thè skins of fishes, expecially of Pleuronectidae. Phil. Trans. Roy. Soc. London voi. 184 B. 1894. Pavesi, C. — Curioso metacromatismo in anguille. Rend. Ist. Lom¬ bardo Serie 11, voi. 27 , fase. 16. 1895. Gadeau de Kerville, H. — Note sur un pii e franche et un flet vulgaire atteints d'albinisme. Bull. Soc. Zool. France. T. 20, p. 155-56. 1900. Festa, L. — Di un caso di icterismo nel Petromyzoti pianeri Bloch. Boll. Mus. Zool. Anat. C omp. Torino , voi. 15, n. 367 p. 2. 1901. Brunn, Mac von. — Ein Gold Stuhr. Nerthus, voi. 3, pag. 260-61. 1902. Bezier, Toussaint. — Sur quelques cas d’albinisme e de mi- metisme. Travaux scient. Univ. Rennes. Voi. 1, p. 191-194. 1903. B o c k e, J. — Unpigmented exemple of Sole, Rhombus maximus. Jaarb. Rijkinstitut ondez. Zee. Helder p. 40-42. 1903. Ninni, E. — Sopra una nuova forma di metacromatismo in Pleuronectes italicus. Neptunia, Venezia. 1903. Dean, B. — Albinism, partial albinismi and polycromism in hag fishes. Amer. Nat. voi. 37, pagg. 295-298, 3 figg- 1904. Kershaw, J. A. — A coleur variety of thè common eel, Anguilla au¬ strali Rich. Victorian Natur. p. 20-140. 1905. Cuénot, M. L. — Prèsentation d'une sole à deux faces colorées C. R. Soc. Biol. Paris, t. 58. 1906. B e Hot ti, C. — Di una notevole varietà di colorazione della Tinca comune. Atti Soc. li. Se. Nat. Museo Civico St. N. voi. 44, p. 218- 222. 3 — 18 1906. Ninni, E. — Metacromatismo in pesci raccolti nel maree laguna di Venezia. Atti Congr. Nat. It. Milano p. 585-589. 1908. — — Sopra una nuova forma di metacromatismo. Neptunia, Venezia. 1908. T r oi s , E. F. — Nota sopra una forma di metacromatismo osservata in un esemplare di Pleuronectes italicus G u n t h e r , preso nella laguna di Venezia. Atti Ist. Se. Nat. Venezia voi. 8, n. 7 p. 221-22. 1908. — — Sopra un esemplare di anguilla con spiccato metacromatismo, re¬ galato alla collezione dell'istituto dal Sig. Avv. G. B. Voltolina. Atti Ist. Se. Venezia , voi. 7, Serie 7, p. 65-66. 1909. — — Sopra l'anormale colorazione della pelle osservata in un esem¬ plare mutilato di Lophius piscatorius proveniente dalle peschierie di Arcachon. Atti Ist. Se. Venezia, voi. 8, serie 8, p. 43-45. 1909. Scabra, A. F. d e. — Description des types d'albinisme existants dans la collection du Muséum de Lisbonne ; quelques considérations sur Po- rigine de la couleur blandi chez les vertébrés. Ball. Soc. Pori. Se. Nat. voi. 2. p. 256-63. 1911. Schreitmiiller, W. — Weitere Falle von xanthorismus un albini— smus bei fischen. Deutsche Fischerei Korres. voi. 15, p. 228. 1911. Riedel, K. — Xanthorismus bei einer Ellritze Blàtt. Aquar. Terrar. Kunde, 22 Jahrg. p. 150-151. 1912. Ninni, E. — Di un caso di metacromatismo osservato in un anguilla. Riv. mensile Pesca. Pavia, voi. 7, p. 207-208. 1923. Schnackenbeek, W. — Ueber Fàrbungsanomalien bei Pleuronectiden Wiss. Meeresunters. Komm, Unters. Deutsche Meere, Kiend und Helgoland. 1923. Giacomini E. — Primi risultati della somministrazione di tiroide spe¬ rimentata nei polli. Nota I. Rend. R. Acc. Se. Bologna, anno 1922-23. 1926. Normann, J. R. — A report on thè Flatfishes (Heterosomata) col- lected by thè F. I. S. " Endeavour „ with a synopsis of thè Flatfishes of Australia and Revision on thè subfamily Rhombosoleinae. Biol. Re- sults " Endeavour, Sidney, p. 219-308, 15 figg¬ igli. Flora, S. L. — An albino Màgur Clarias batrachus L. Journ. Asiat. Soc. Beng. Calcutta, voi. 22, p. 131-32. 1927. Roller, O. — Ein albinotischer Wels. ( Silurus glanis ) aus der Donau bei Wien. Zool. Anz. Leipzig. Bd. 69, p. 333. 1929. Sigalas, R. — Sur une sole a deux faces colorées. Act. Soc. Linn. Bordeaux. , T. 81, p. 117. 1929. Giacomini, E., — L'influenza attenuante del sangue sull'azione del succo tiroideo dimostrata sperimentalmente nei polli. Mon. Zool. Ital., anno 40, n. 11-12. 1930. S t i a s n y, G. - Ueber ambicoloration bei Platt fischen (Solea vulgaris) Zool. Anz. Leipzig,, Bd. 88, p. 265-212, 23 figg 1932. Warren, A. E. — Xanthophores in Fundulus with special considera* tion of their " expanded „ and " contracted „ phases. Proc. Nat. Ac. Se. Washington , T. 18, p. 633-39, 3 figg. 1933. Pappenheim, P. — Kunstlich erzeugter Leucismus bei einer Bla- chforelle. Sitzber. Ges. Naturi. Fr. Berlin, Bd. 8-10, p. 348, Ì934. Gudger, E. W. — Ambicoloration in thè Winter Flounder, Pseudó- pleuronectes americanus. Amer. Mus. Nov. R. Y.t t. 717, p. 1-8 4 figg- 1934. Normann, J. R. — A systematic Monograph of thè Flatfishes (He- terosomata). voi. I Psettotidae, Bolhidae, Pleuronzctidae. 8 4- 459, pp. 318, figg. 1934. Schreitmiiller, W. — Total albinos von Xiphophorus helleri H e c k el. und Xanthoristische Lebistes reticulatus Peters. Zool. Anz. Leipzig, voi. 106, p. 333. 1934. Souché, G. — Sur un " Flesus vulgaris „ a pigmentation anormale. Bull. St. Biol Archachon, T. 30, p. 285-288, 2 figg- 1935. Kosswig, C. — Ueber Albinismus bei Fischer. Zool. Anz. Leipzig. Bd. 110, p. 41-47 , 4 figg. (Macropodus v iridi- auratus Lacèpede e Xiphophorus helleri H e c li e 1 ) . 1935. Goff, C. C. — A case of melanism in Lepidosteus osseus. Copeia. Ann. Arbor. Mich ., p. 41, 1 fig. 1935. Gudger, E. W. — Two partially ambicolorate Flatfishes (Heterosomata) I. A Summer flounder, Paralichthys dentatus II. A rustis dab, Li¬ mando ferruginea. Amer. Mus. Nov. N. Y., n. 768, p. 1-8, 3 figg. 1935, — — and Firth, F. E. — An almost totally ambicolorate halibut Hippoglossus hippoglossus with partially rotated eye and hooked dorsal fin thè only recorded specimen. Amer. Mus Nov. New York, 811, p. 1-7, 2 figg. 1935. S c h r e i t m ii 1 1 e r , W. — Ein partiell albinotischer Pleurodeles walth Mich. Zool. Anz. Bd. 108, p. 95. Cenno illustrativo sulle terre decoloranti. del socio Stefano Sorrentino La battaglia autarchica per l'utilizzazione delle materie prime italiane ha, fra l’altro, indirizzato gli Enti industriali e gli studiosi alla risoluzione del problema dei decoloranti degli oli. Su questi materiali, sui quali si è svolta e si svolge l’attenzione dei tecnici, si sono acquisite numerose conoscenze, talora non concordi ; che se hanno permesso di allargare il campo delle nozioni possedute, hanno anche determinato una serie di criteri e divulgazioni di no¬ tizie non rispondente sempre alle effettive manifestazioni della pro¬ prietà di questi materiali. In verità le difficoltà che si incontrano, per la precisa identi¬ ficazione e separazione di queste terre dalla massa dei materiali argillosi più o meno affini non sono le condizioni più favorevoli per fare svanire le incertezze e fugare dubbi e perplessità. In questa nota si è cercato di mettere in giusto valore le ca¬ ratteristiche effettive di questi materiali, così come sono risultate dalla messa in rapporto di quanto hanno comprovato i vari studi scientifici e tecnici, con quello che la pratica attuazione effettiva¬ mente verifica ; dato che il fenomeno di decolorazione, se pur in linea di massima chiarito, è ancora piuttosto lontano da una precisa ed esauriente spiegazione. Anche in Italia ora gli studi su tali materiali hanno avuto un poderoso impulso e molti si sono dedicati alle complesse ricerche — 22 — fisico-chimiche e rotgenografiche, per riconoscere lo andamento, il comportamento e le ragioni del fenomeno. Accertato che esso è connesso alla disposizione e costituzione delle strutture reticolari, anziché alla composizione chimica, non viene esclusa la eventualità di avere anche dei veri scambi o com¬ binazioni chimiche fra i gruppi dei vari nodi reticolari ; sia per effetto dei reagenti, che per le azioni stesse delle varie manipola¬ zioni a cui sono sottoposte i materiali prima di essere considerati atti a decolorare. Da qui le indagini sul tipo dei reticoli spaziali, sugli spessori degli strati elementari, sulla posizione e caratteristiche chimiche dei vari gruppi reticolari, ecc. ; nei confronti di una maggiore o minore attitudine a decolorare, all'eventuale possibilità o meno di miglio¬ ramento, al comportamento pratico del fenomeno ecc. ; dei diversi materiali esaminati. Altri studi, di indole più pratica, si sono avuti nei riguardi specialmente del comportarsi della disidratazione, della selettività e sulla ricerca di processi intesi a migliorare le qualità (attivazione) delle terre già di per sé stesse decoloranti o meno, allo scopo di ottenere prodotti attivi o prodotti super-attivi. Tutti questi complessi di studi però, oltre ad avere ancora bisogno di maggiore e successive conferme, sono fuori del campo pratico ; giacché o risultano troppo teorici, o sono solo stadi spe¬ rimentali di procedimenti di indole riservata per eventuale istitu¬ zioni di brevetti. Inoltre gli stessi procedimenti brevettati, partendo da tipi di terre non nominate, o non bene determinate, risultano molto spesso inadatti ad attivare altri tipi di terre. Questi fatti hanno spinto l'attenzione dei tecnici a polarizzarsi piuttosto e giustamente, verso quei materiali che o sono di per sé stesso decoloranti, o sono già riconosciuti come attivabili. Su detti materiali poi si sviluppano in generale tutti quei trattamenti ed accorgimenti tecnologici, che possono condurre alla determinazione di un processo di attivazione definibile, ed atto a dare un miglio¬ ramento efficace e costante alla terra ; nonché stabilire le caratteri¬ stiche fisse da assegnare poi al prodotto da mettere sul mercato. Le terre decoloranti vanno sotto numerose denominazioni ri¬ tenute in sinonomie l’una dall’altra (terre assorbenti, da sbianca, da fullone, da sgualchiera, argille smettìche, ed ancora altre) ; mentre sarebbe bene determinare un loro preciso nominativo allo scopo, oltre che per semplicità, di evitare quei possibili scambi, che già hanno determinato confusione, fra le proprietà più specificamente — 23 — possedute ed attinenti ad ogni singolo aggruppamento di terre argillose. Per altro molti materiali, dai caolini alle marme ed agli affini vulcanici, che sembrano presentare proprietà decoloranti, non lo sono in realtà ; poiché la leggerissima loro caratteristica di deco¬ lorante è piuttosto una conseguenza della proprietà defecante, fil¬ trante ecc ; che in proporzione variabite posseggono tutte le terre argillose ; il che è ben diverso dal decolorare. Del resto che sia così è confermato anche dai vari tentativi di attivazione esperimentati su detti materiali (bentoniti, terre rosse, argille, marne, caolini ecc.) ; i quali si sono tutti dimostrati inadatti ; giacché o sono risultati del tutto inattivabili ; oppure, se la loro attivazione è stata possibile (pur laboriosa e costosa), il potere de¬ colorante acquisito è risultato molto modesto. Certo è che il fenomeno di decolorazione è strettamente legato ed è caratteristico dei minerali del gruppo Montmorillonite. Questo in quantità variabile è presente, assieme agli affini illite, otaylite, beaumontite, attapulgite, pirofillite, ecc. anch'essi in proporzioni va¬ riabili ; quasi sempre nel grande e complesso gruppo delle rocce, comprese nei termini da " argille a marne „ ed alle corrispondenti terre argillose di origine più strettamente legata alle rocce vulcaniche. E' bene precisare fin d'ora che il potere decolorante posseduto dalle terre attive è selettivo per i vari tipi di oli ; giacché una può risultare ottima a decolorare un determinato olio, mentre più spesso è cattiva per un altro di origine ed acidità diversa. Bisogna quindi ritenere che si ha un assorbimento elettivo per le varie impurità determinante la colorazione stessa. Detta selettività delle terre decoloranti non può determinarsi a priori e, pur non essendo ancora ben conosciuto il fenomeno, pare che non debba rapportarsi alla maggiore e minore percen¬ tuale di Montmorillonite presente nella terra ; piuttosto deve con¬ siderarsi in relazione alla petrogenesi stessa della roccia e quindi, di conseguenza, può essere più o meno influenzata dalle diverse quantità e varietà degli altri componenti, che hanno assunto potere decolorante in seguito al procedimento di attivazione. Comunque sia, questa altra proprietà delle terre decoloranti è riconoscibile alle analisi tecnologiche ; eventuali confronti possono avere valore espressivo ed efficace solo se sia stato lo stesso il processo di attivazione. I procedimenti di attivazione servono a migliorare il potere — 24 — naturale che una terra già possiede in proporzione variabile ed a liberarla di tutte quelle eventuali parti inattive od addirittura nocive, che altrimenti graverebbero sul buon andamento della decolorazione. Si possono utilmente riattivare anche quelle già usate come deco¬ loranti, specialmente quelle sfruttate dai saponifici : ma queste nuove riattivazioni però riducono sempre più il potere decolorante iniziale. I procedimenti di attivazione sono vari e costituiscono brevetti distinti e legati ai vari tipi di terre originarie di cui però non è fatto cenno. Il complesso di tali operazioni si può in generale con¬ siderare una lisciviazione acida, effettuata in condizioni appropriate e controllate di temperatura, di tempo e di quantità. Gli acidi più usati sono il solforico ed il cloridrico. Come già detto, non tutte le terre argillose sono attivabili : ma, fra le possibili, sono da escludere in generale quelle che hanno una percentua'e di calcio superiore al 2,5 °[0 e quelle contenenti colorazioni troppo vistose. Il procedimento sembra che abbia più probabilità di una buona riuscita in quelle terre che, oltre la Mon* morillonite in quantità apprezzabile, abbiano componenti minerali a spessori più elevati degli strati elementari del reticolo, o più pros¬ simi a quello della Montmorillonite : inoltre la buona riuscita dei¬ ratti vazione sembra pure legata alla presenza, nella struttura di Si OH ed Mg O solubili. Una buona terra deve essenzialmente avere il potere filtrante in rapporto pressoché eguale a quello decolorante ; giacché in caso contrario la sua utilizzazione può anche non essere conveniente economicamente Infatti all'atto pratico e preferibile, entro deter¬ minati limiti, una terra a grado di decolorazione minore, ma con potere filtrante maggiore : ciò è perfettamenta spiegabile in quanto, una terra così data, trattiene una percentuale di olio minore che può compensare la minore decolorazione. Non si ha ancora una scala graduale, per la misurazione della decolorazione, che possa con un semplice confronto numerico dare il giudizio preciso ed evidente fra due terre. In pratica si ricorre a diagrammi, o meglio a diversi metodi più o meno adottati dai laboratori tecnologici e basati in generale su un rapporto di con¬ fronto. Il termine di paragone è di solito una terra di importazione conosciuta: generalmente si usa riferirsi alla “ Tonsil „ ed alla “ Nobel „. Tali indici si possono ricavare tenendo costante la quantità d'olio, oppure quella della terra ed in entrambo i casi espressa con la costante 100. Nel primo caso, il denominatore (100) - 25 - dell’indice frazionario rappresenta la quantità d’olio che la data terra estera decolora ; mentre il numeratore esprime la quantità dello stesso olio, che il campione in esame decolora. Col secondo sistema invece il denominatore ( 1 0 J) esprime la quantità di terra estera prescelta ed occorrente a decolorare una fissata quantità d olio ; il numeratore quella della terra in esame, rispetto alla me¬ desima quantità dello stesso olio. In altri termini, col 1° metodo l'aumento della cifra esprimente il numeratore denota un miglioramento della qualità decolorante della terra : mentre nel secondo un peggioramento. Paralleli precisi fra due frazioni si possono fare solo in sede sperimentale ; in grosso modo, la frazione 120/100 del primo può rappresentare, presso a poco, l'equivalente della frazione 85/100 del secondo. Gli usi delle terre decoloranti sono a tutti noti per la deno¬ minazione stessa, poiché trovano larga applicazione nella lavora¬ zione degli oli, sia minerali che vegetali, cere, grassi ecc. : utili risultati danno anche nella sofisticazione dei saponi, nella utilizza¬ zione in fonderia ed in sostituzione di altre sostanze nei pro¬ cessi catalici di idrogenazione. Anzi per gli oli di petroli, il feno¬ meno di decolorazione presenta anche una specie di raffinazione, giacché elimina gli acidi naftenici, e derivati solfonati. La decolorazione si effettua con vari sistemi basati su azione di filtraggio o di contatto. L'origine delle terre decoloranti, pur presente anche in terreni geologicamente di età diversa, è presumibilmente la stessa ; giacché escludendo quelle legate alle evidenti alterazioni di rocce vulcaniche specialmente dei gruppi 11 Porfidi e Trachiti „ ; sono da conside¬ rarsi depositi originatisi in mari profondi ed in cui l'influenza ter¬ rigena arrivata molto selezionata, si associava a quella chimica più propria dell'ambiente stesso. Confortano tale ipotesi, oltre i caratteri chimici e fisici, quelli più propriamente inerenti alla giacitura : sempre in un complesso sedimentario marino e di acque protonde ; distribuzione geografica molto estesa e per ampie regioni in livello geologico costante ; spessori quasi sempre esili e poco varianti in rapporto alla esten¬ sione : ed altre caratteristiche minori; fatti che altrimenti non tro¬ verebbero adeguata spiegazione. In Italia i giacimenti di terre decoloranti, a buoni valori, sono conosciuti specialmente sul versante adriatico ; mentre numerose altre manifestazioni ed affioramenti anche di tipi migliori si trovano ; — 26 — lungo il dorsale appenninico, in Sicilia e Sardegna : ancora altri se ne sarebbero riconosciuti, se la ricerca fosse stata spinta in tutto il territorio. Certo l'esile spessore che di solito si accompagna alle migliori qualità non è la condizione più incoraggiante per la ricerca ; risulta pure tale, per i trasporti, la ubicazione piuttosto scomoda che di solito presentano questi depositi. Dal punto di vista geologico il più promettente ed indiziato livello, per questi materiali, è il mio¬ cene medio ; dove, nei suoi sedimenti, si riscontrano strati di ottime terre decoloranti alcune anche ad indice di decolorazione migliore di 100/100, simbolo signato per le più apprezzate terre di impor¬ tazione. Manifestazioni in terreni riferiti alleocene si hanno nel Berga¬ masco ed in Sicilia, mentre si è pure parlato di affioramenti sardi più antichi che, salvo parziali casi, non sono da considerarsi tali, essendo inadatti alla decolorazione. Nel Vicentino e Sardegna poi sono localizzati i giacimenti più propriamente legati a rocce vulcaniche, sia dovuti ad alterazione verificatasi in posto sulla superficie esterna, che mediante accumu¬ lazione di materiali, già in parte alterati, deposti in bacini lacuali prossimi alle rocce originarie. Si può ritenere che le migliori terre italiane presentano un potere decolorante che oscilla fra 80/100 e 130/100, riferito alla terra Nobel e con 2 metodo ; seguono quelle con indice da 130/100 a 200/100; mentre sono da ritenersi non decolorati le altre con indici maggiori. Per le terre da adoperare effettivamente come decoloranti si crede più conveniente non superare i 140/100. Sui mercati si hanno di solito due tipi fondamentali di terre decoloranti ; uno molto attivo ed a prezzo elevato, l'altro media¬ mente attivo ed a prezzo basso. Non è ancora ben precisato la preferenza che hanno i consumatori, ma sembra che l'attenzione di essi si volga sempre più verso i prodotti semi-attivi ed a basso prezzo. * * Le terre decoloranti si possono riunire in due gruppi : a) decoloranti per proprietà naturale ; b) decoloranti per proprietà acquisita, — 27 - Considerando inoltre che anche qnelle del 1° gruppo subiscono un trattamento atto ad eliminare impurità, o migliorare il prodotto, si possono trascrivere qui sotto i capisaldi fondamentali che bisogna tener presente per una precisa idea su queste terre. 1°) Il potere decolorante è selettivo specialmente in quelle a proprietà naturale. 2°) L'attivazione è un fenomeno specifico per ogni singola terra, quindi i procedimenti usati per una non sono che eccenzio- nalmente applicabili ad altre. 3°) Valutare il potere decolorante su soluzioni acquose o con indici arbitrari, più spesso non corrisponde poi a realtà. 4°) Per ogni tipo di terra si ha un potere massimo di deco¬ lorazione, corrispondente ad una determinata temperatura d’essica- zione, oltre la quale il potere decolorante può anche perdersi. 5°) Per un dato tipo di terra si ha un potere decolorante massimo, in rapporto ad un tenore d'acqua considerato " optimum „ tale potere decolorante massimo può però variare secondo il pro¬ cedimento di idratazione usato. In generale è preferibile una bassa temperatura per lunga durata. 6°) La quantità d'acido, la durata dell' attivazione e qualche volta anche la qualità dell'acido adoperato, hanno decisa e netta influenza sulla acquisizione del potere decolorante. In linea di mas¬ sima esiste un “ optimum per ogni qualità di terre; oltrepassan¬ dolo, il potere decolorante diminuisce o si annulla del tutto. 7°) La scala dei coni Seger non ha nessun rapporto con la decolorazione. Le terre che più propriamente possono costituire terre deco¬ loranti sono da considerarsi quelle in cui la composizione minera¬ logica risulta predominantemente di : Montmorillonite, Beaumontite, Otaylite, Saponite, Illite, Beidellite, Attapulgite, Pirofillite ecc. Anche le bentoniti alterate possono dar luogo a terre mediamente attive. Il riconoscimento delle terre decoloranti od attivabili può es¬ sere: la determinazione mineralogica, specialmente la presenza di Montmorillonite ; lo studio del fenomeno di disidratazione e le analisi tecnologiche. Ciò perchè, come risulta da quello fin qui detto, l'analisi chimica non dà nessuna possibilità di riconoscimento ; dato che rientrano tutte nel complesso gruppo dei silicati idrati di allu¬ minio : nè la determinazione quantitativa dei diversi aggruppamenti chimici può assumere significato espressivo, come non può nep¬ pure essere indicativa la proporzionalità od equivalenza dei rap- — 28 — porti fra i gruppi stessi. Infatti, a parte le sostanze non argillose che hanno potere decolorante, vi sono terre decoloranti a compo¬ sizione chimica analoga a quelle del tutto inattive. Certamente nocivi per la decolorazione sono gli ossidi di ferro e quelli di calcio in proporzioni accentuate ; mentre si è propensi a considerare favorevoli al fenomeno la presenza dei sali alcalini, che di solito in percentuali minime entrano sempre nella compo¬ sizione delle buone terre. Tenendo conto però, che : la presenza e la percentuale del minerale determinato in una terra non dà nè il grado nè la selet¬ tività che quella terra ha o può dare ; la curva di idratazione pur essendo indiziaria per la decoloi azione, non ne accennale caratte ristiche ; è evidente che si ha (a parte tutto) maggior praticità e convenienza nel ricorrere alla determinazione tecnologica. Infatti è questa che, con la rieerca della proprietà in sè stessa, fa scaturire contemporaneamente tutte le caratteristiche che le riguardano. Inoltre i procedimenti tecnologici, sviluppandosi in serie di attivazione, apportano modifiche chimico-fisiche nella compagine della terra, facilitando o permettendo a minerali naturalmente inattivi Y acqui¬ sizione della proprietà decolorante ; ciò che con gli altri metodi di riconoscimento non acquisterebbero. La ricerca di campagna, che si indirizza principalmente su materiali naturalmente decoloranti o quasi, deve essere condotta con molta oculatezza, allo scopo di evitare il più possibile l'affol- lamento di campioni ai laboratori tecnologici ed il conseguente in¬ gombro di analisi già di per sè stesse laboriose ; nel contempo evita di chiedere permessi di ricerca sopra aree risultanti poi prive di interesse. Se mai, disponendo di una buona organizzazione chimico-te¬ cnologica ed in sede sperimentale, si possono portare allo studio materiali argillosi scelti dal ricercatore, allo scopo di arrivare a procedimenti atti ad individuare nuovi materiali attivabili, nuovi procedimenti, o migliorie adatte a determinare alleggerimento del prezzo di costo della lavorazione. Il ricercatore di terre decoloranti si basa, nella scelta dei cam¬ pioni da inviare al laboratorio, su una quantità di piccoli dati che spesso sfuggono all'osservazione non approfondita e che, messi in confronto tra loro, lo inducono ad emettere un giudizio che può raggiungere anche una approssimazione rilevante. Non è facile, nè semplice poter descrivere esattamente tutte — 29 — queste minime caratteristiche rilevabili in campagna. Di solito sono apparenze e sfumature che presentano le terre attive od attivabili, sia allo stato umido che secco, e che si riferiscono al colore, lu¬ centezza, consistenza, compattezza, aspetto generale, caratteristiche tattali, ecc. ; che, assieme al modo di presentarsi sugli affioramenti alle variazioni di aspetto e colori che allo stato alterato, all’anda- mento del gonfiare e spappolarsi in acqua, ecc., possono condurre ad un apprezzamento favorevole o meno Non va dimenticato che tutte queste, chiamiamole pure carat¬ teristiche, devono essere messe in relazione specialmente con l’ori¬ gine del materiale ; giacché notevoli variazioni si riscontrano fra quelle di origine sedimentarie e quelle più propriamente legate alle alterazioni dei porfidi e delle trachiti. Trattandosi naturalmente di fissare, determinare ed interpretare alcuni momenti, o successivi stadi, di manifestazioni offerte da caratteri che sono del tutto relativi ; gli unici indizi convoglianti ad un giudizio di valida identificazione sono dati dalle somme di apprezzamenti personali. Questi, appunto perchè tali, formano il corredo sperimentale dei ricercatori ; poiché se le medesime mani¬ festazioni sono considerate oltre dati limiti e campi di esistenza, risultano più spesso di nessun valore. Per citare un esempio, si consideri una delle caratteristiche ritenute più diffusamente tipica delle terre decoloranti, qual’è il gonfiare e lo spappolarsi in acqua. Questo, come gli altri, fornisce solo un indice ; essendo una caratteristica anch’essa relativa : giacché se mai, è tipica per le bentoniti (terre non decoloranti), che presen¬ tano il fenomeno molto accentuato rispetto al grado ed all’intensità ma non al tempo. Certo è che tutti questi criteri, se pur empirici e soggetti vi si basano su constatazioni di effetti fisici ed organolettici che, anche se confusi o mascheratt, sono abbastanza bene apprezzabili dal ricercatore pratico. RIASSUNTO In un sintetico quadro monografico sulle terre decoloranti si fanno risultare i capisaldi fondamentali e le notizie più accertate, allo scopo di meglio chiarire le cognizioni che si hanno su questi materiali. A proposito di indizii di flora cretacea. del socio Maria Fiore (Tornata del 3 luglio 1941). Che nel Gargano vi siano indizii di flora fossile è noto (1), per quanto non siano stati descritti dei veri e propri vegetali fos¬ sili, almeno per quanto io sappia. Essendomi quindi recata nel Gargano per invito dell' II. Senatore Prof. De Lorenzo, e essen¬ domi imbattuta in questi indizii di flora fossile, non mi è sembrato una perdita di tempo rivolgere su di essi la mia attenzione, nella speranza di poter giungere a qualche conclusione paleobotanica. Per prima la mia attenzione fu attratta da indizii di piante calcarizzate (avanzi di tronchi del Santoniano) , ma questa mia prima ricerca ho creduto opportuno esporla a parte (2). La que¬ stione così rivoltami alFinizio della ricerca che vengo ad esporre è stata quella di poter stabilire per lo meno a quale tipo di flora (1) " . Le formazioni a chamacee e a rudiste del cretaceo (dolomie e calcari di scogliera zoofitogeni, coralligine) hanno grande sviluppo ed estensione dall'Abruzzo alla Calabria ....,, (Parona Memoria per la descrizione della carta d’Italia, V. I. Parte I. 1909. Roma). * . . . . Nel Gargano e nelle Puglie, infatti, la serie è data da dolomie zoo¬ gene e fitogene di tipo coralligeno, di solito brune saccaroidi, bituminose , con brecce calcareo-dolomitiche, cui fanno seguito dei calcari stratificati , compatti, talora a struttura cristallina, generalmente bianchi .... (Parona Geologia 1923). (2) Fossili o pseudo-fossili ? Nuovo Giornale Botanica 1940. 4 — 34 - a qual gruppo di piante appartenessero i frammentarii resti in forma di impronta, di modelli, di inclusioni, in cui mi ero imbat¬ tuta. Ma per venire a ciò mi sono accorta che mi si presentava unitamente la soluzione di un problema da tempo in discussione e chiarito fino a un certo punto, e cioè quello della genesi della selce che in forma di noduli, di straterelli, di arnioni etc. invade le rocce, specialmente del cretaceo, e di altre regioni. A riguardo, infatti, varie opinioni sono state emesse (1) e la maggior parte di esse si possono riunire in due gruppi a secondo che è stata ammessa o pur no la necessità della presenza di so stanza organica in decomposizione, come risulta dalle seguenti più notevoli interpretazioni. Alcuni tra i quali può ricordarsi Valerio Rome de L'Isle, Linneo Gillet-Laumont, Girand Chantrans, opinarono, come si apprende dal Buffon (Historia Naturalis) trattarsi di semplice trasformazione del calcare in selce. Secondo Buffon si tratterebbe invece non di semplice trasformazione, ma di un fenomeno più complesso in quanto che tale trasformazione, sarebbe una conseguenza della presenza del fluido animale; altrimenti tale trasformazione si sareb¬ be avverata unicamente per la presenza di sostanza organica in decomposizione. Egli così si esprime fra varie notevoli osservazio¬ ni : “ Urtando obliquamente un selce contro un altro schizzan scintille convertite in carboni. Lo stesso succede nel quarzo in maniera più o meno sensibile. Da questa proprietà appare come il selce puro contiene sostanze animali che sono concorse alla sua formazione, perchè il quarzo non può produrre carbone .... „. E altrove : " E stata letta la memoria di Poiret (all’Istituto, nella se¬ duta del 26 Vendemmiale 8 (18 set. 1799):... " Qui giova osser¬ vare che questo Legno fossile, la cui parte interna è trasformata in selce, fu trovato in un terreno calcare, e che nei terreni di tal na¬ tura le pietrificazioni sono generalmente selciose. Nulla di più ov¬ vio che il trovarvi conchiglie il guscio delle quali non ha provato alterazione alcuna, mentre il nucleo è di selce pura. Questo fatto sì comune e sì rimarchevole sembrerebbe provare che tale materia selciosa sia un prodotto degli elementi del corpo dell' animale e della terra calcare, o dei fluidi in essa contenuti. Infatti è difficile (1) Parona. — Radiolarie nei noduli salciosi del calcare giurese di Cettiglio presso Laveno. Bull. Soc. Geol. ital., 1890. — 35 — il comprendere che un fluido quarzoso già esistente nella massa calcarea, sia penetrato nella conchiglia ; in tale ipotesi questo flui¬ do doveva essere prodigiosamente copioso ed avrebbe convertito in selce lo strato interno. D’altronde al lato di una conchiglia a nu¬ cleo selcioso, se ne veggono delle vuote ed altre che sono ripie¬ ne della sostanza medesima dello strato che le contiene. Tutto ciò naturalmente si spiega col supporre che le conchiglie rimaste vuote, o ripiene di carbonato calcare, erano state sepolte nella creta, e che quelle il cui midollo è agatizzato , contenavano il corpo dell’animale, la cui decomposizione è concorsa a produrre la sostanza selciosa Secondo altri si tratterebbe della semplice riunione delle mo¬ lecole quarzose che esistevano nel calcare, ma per la presenza di corpi organici in decomposizione. Così ritengono ad esempio il De Lapperente, il Bombicci, il Parona. Altri tra i quali il Virlet d’AousT e lo Stoppani ritennero invece la formazione dei noduli selciosi effetto di fenomeni di spostamenti molecolari determinati da una forza elettro-chimica; senonchè secondo il Virlet d' Aout senza che occorresse la pre¬ senza di sostanza organica in decomposizione, mentre secondo lo Stoppani la forza elettro-chimica sarebbe suscitata dalla presenza e dalla influenza di sottanze organiche. Più recentemente è da ricordare tra coloro che si sono inte¬ ressati della questione in parola (1), il Wetzel che invece ritiene che la selce provenga da infiltrazione di acque nella creta bianca dopo che fu emersa: il Kumel che considera la silice di origine en¬ dogena, e il Vinassa de Regny che opina che la silicizazione delle piante provenga dalla selce colloidale che si trova nelle acque gio¬ vanili con silice colloidale, acque che possono aversi anche in fon¬ do al mare onde si spiegherebbe la silicizzazione dei fossili marini. Ora quale delle sudette opinioni si addice per il caso delle solci del Gargano ? A priori le osservazioni e interpretrazioni del Buffon, tenendo presente i tempi in cui furono fatte, concepite, e quindi alquanto completate e modificate mi sembrano di gran va¬ lore e verità, esse mi sembrano piuttosto in accordo con quelle da me fatte nel Gargano. (1) P. Vinassa de Regny. — La silice giovanile nei vegetali fossili viventi. Rendiconti della classe di Scienze fisiche e matematiche o naturali. Roma, 1940 - 36 - Le località di questa regione ricche in selce sono varie; tuttavia i campioni da me prelevati e utilizzati sono stati raccolti special- mente tra S. Menaio-Bellariva e Vico del Gargano, sia percorren¬ do la via maestra che le varie accorciatoie; come pure da più o meno immediati pressi di Vico : Cimitero, Convento Cappuccini, Coppa di Guardia, Coppa di Mandorle, Crepacuore etc. Il metodo di investigazione è stato il seguente: rotti in pez¬ zetti i campioni, ho sottoposto alcuni di questi pezzetti in un pò di acido fluoridrico versato in una capsula di piombo e atteso che si sciogliessero tutti o in parte; indi con un contagocce ho aspi¬ rato rapidamente e raccolte le impurità rimaste indisciolte nell'aci¬ do per passarlo in acqua e indi di nuovo raccoglierle per farne preparati e poterle esaminare a microscopio. Ma anche sottili schegge ottenute casualmente nel frantumare con un martello i campioni da esaminare, sono stati utilizzate con profitto, potuti esaminare a microscopio ; come pure qualche pre¬ parato dei varii ottenuti con la macchina adatta per preparati di rocce. (Gori, Firenze). Ora l'esame sia delle impurità raccolte dall' acido sia delle schegge e laminette di selce mi ha condotta a conclusioni varie, ma in ogni modo concordanti in quanto che la diversa colorazione è risultata dipendere dalle impurità in essa incluse, concordanti in quanto che è risultato come esse consistano generalmente in avan¬ zi di resti vegetali più o meno marciti, di ife e di spore fungine, onde l’ovvio sospetto che la natura delle selci in parola debba in effetti ritenersi fitogena. Chiunque infatti ha avuto 1' occasione di osservare ciò che resta di una pianta legnosa che abbia subito anche soltanto in parte l'azione enzimatica di funghi o addirittura ne sia stata interamente preda, non troverà infondato un tale sospetto benché basato generalmente su pochi sparsi avanzi conservatisi quali inclusioni o silicizzatisi interamente. Ma delle impurità esaminate quelle che dal punto di vista paleo¬ botanico mi hanno dato qualche risultato specialmente soddisfa¬ cente sonò state quelle pertinenti a campioni di selce colorata in giallo arancione e giallo più o meno chiaro, oppure brunastro. In esse ho potuto osservare e da esse ho potuto ricavare chiari pez¬ zetti di legno gommoso o mucillaginoso infiltrato di ife e spore, di mucillagine mista a resti di micelii e di tessuto vegetale. L'esame delle ife e delle spore non mi ha condotta a poter formulare alcuna conclusione circa il fungo o meglio i funghi di — 37 - cui gli avanzi; si tratta in generale di ife generalmente brune e settate e ampie due o tre micron; oppure di ife bianche e senza evidenti setti e ampie due micron; le spore o sono brune, piccole e oidiformi o della natura di clamidospore. Interessante è risultato l'esame al microscopio dei su detti pez¬ zetti di legno. La loro struttura anatomo-istologica racchiude affi¬ nità gimnospermica, e precisamente ricorda il legno delle conifere per le numerose tracheidi a punteggiatura areolata e per la pre¬ senza di raggi uniseriati; mentre per la presenza di vasi a punteg¬ giatura alterna e raggi pluriseriati quello delle Àngiosperme. Inol¬ tre di frequente si notano degli elementi tra le cellule parenchima- tiche ornate di un peculiare ispessimento a rete massiccia che fan¬ no pensare a quel caratteristico tessuto detto di trasfusione e che si riscontra nelle foglie di varie piante quali Cicadee , Gnetacee, Ginkgoales etc., (nonché in frutti di piante superiori). In conclusio¬ ne, quindi, caratteristiche anatomo-istologiche quali si riscontrano specialmente ad esempio nelle Gnetales, piante che per tali ragio¬ ni sono ritenute Gimnosperme di affinità angiospermica. In queste piante, fa notare Ieffrej (1), i raggi pluriseriati ricordano molto quelli di alcune querci oggi viventi e lo stesso è da dirsi quindi per quelli dei pezzetti di legno esaminati. Alcuni frammenti lignitici da me riscontrati in legni marciti calcarizzati del Santoniano (2) sono stati appunto da me riferiti con molta probabilità a qualche quer¬ cia; nel presente caso, però, i campioni di selce gialla da me pre¬ levati provengono da località diverse, di età anche più antica; ne in quelli sono stati da me notati di quei peculiari elementi da ri¬ ferirsi a tessuto di trasfusione. D'altra parte alcuni dei pezzetti di legno esaminato sono risultati appartenere a legni per natura nor¬ malmente gommosi, e quindi ciò ci fa pensare in questo caso, co¬ me si è detto, alla famiglia delle Gnetacee, piante che normal¬ mente possono essere gommose, piuttosto che non a quella delle querci. Ma a riguardo di alcuni preparati di selce non gialla ma brunastra o viola-grigio scuro, raccolti in zona da riferirsi al cre¬ taceo superiore (De Lorenzo e Checchia, Rispoli), l’esame di essi fa piuttosto pensare proprio alla famiglia delle Quercie per la strut¬ tura dei raggi* Tra di questi meritano accenno speciale tre prepa¬ rati nei quali risulta chiara la compagine costituita da legno osser- (1) The anatomy of Woody Plants - Chicago, 1927. (2) Fiore, M., già cit. - 38 — vabile in sezione radiale, trasversale e longitudinale, mostrante i suoi elementi immersi e ripieni di un fitto intreccio di ife ialine, sottili. Tra le scheggette ricavate con il martello e osservabili al microscopio sono da ricordate alcune che mostrano grosse ife di un bel giallo brunastro, ramificate, spesso settate; come pure altre ricche di impurità costituite nè più nè meno che dagli ultimi resi¬ dui di legno stato sottoposto airazione macerante e dissolvente di miceti, mista ora più ora meno a scheletri di radiolari e forame- niferi. Si tratterebbe allora di piante di affinità gnetacea e quindi an- giospermica e di vere angiosperme ? Evidentemente così sembra, tuttavia con precisione non si può a riguardo concludere altro se non che alla formazione della selce gialla (a volte giallo-rosea) pre¬ sa in esame, devono aver contribuito avanzi di piante gommose, di resti di piante mucillaginose per attacco da parte di funghi; di re¬ sti da ritenersi per la loro struttura di affinità angiospermica (pro¬ babilmente Gnetacee) e resti di vere Angiosperme (probabilmente Querci, specie per l'ampiezza dei raggi). Di affinità diversa sono apparse le impurità di altri campioni di selce grigio-violacea : in essi sono stati osservati residui di tes¬ suto parenchimatico corticale con cellule ripiene di sostanza bru- niccia, probabile misto di mucillagine e tannino. L'impressione rias¬ suntiva è che potrebbero riferirsi con ogni probabilità a parti cor¬ ticali di stipite e picciuoli fogliari di felci. Notevole di ricordo e anche l'aver notato tra le impurità rac¬ colte da selci di varia colorazione, dei peli stellati, qualche pezzetto di tessuto epidermico e gruppetti di tracheidi che direi con tutta sicurezza bi affinità cicadacea per la loro ampiezza e varia orna¬ mentazione parietale. La forma delle cellule epidermiche è rettan¬ golare e la loro parete ondulata (Cycas ?); si scorgono anche varii stomi che per la loro forma generale e perchè poco approfondati ricordano invece gli stomi di alcuni Encephalartos e Zamie. Da alcuni campioni di selce grigiastra non mi è stato dato di ottenere indìzii strutturali di natura vegetale ; tuttavia aggiungen¬ do alle impurità ottenute secondo il solito metodo, qualche goccia di iodo, esse hanno assunto in parte la colorazione delle sostanze albuminoidi. — 39 - Conclusioni. Lo studio dei preparati di selce e delle impurità ricavate dal discioglimento di campioni di selce di alcune località del Gargano induce a ritenere che la formazione di questa è di natura fitogena o per lo meno alla sua formazione hanno contribuito sostanze ve¬ getali. Questa con ogni probabilità deve essere però avvenuta al¬ quanto prima della formazione calcareo-dolomiiica [in cui sarebbe rimasta inclusa, che andava depositandosi. Quel particolare intonaco brunastro che spesso avvolge questi noduli, questi ammassi di selce, sarebbe dovuto in generale appunto al fatto di essere stati per qualche tempo esposti all'aria o all'acqua prima di rimaner inclusi nello strato di calcare o dolomia. Di conseguenza il presentarsi a volte di ammassi di delce in forma di porzioni di tronchi, di rami etc. è probabile benissimo e in qualche caso si potrebbe dire evidente, che ciò si debba interpretare non come una accidentalità, ma appunto in armonia con la costatazione della loro natura fito¬ gena. È noto infatti come il fenomeno di silicizzazione sia da in¬ tuirsi come dovuto ad imbibizione e a combinazione della sostanza organica con l’inorganica; e che inoltre se dopo la pietrificazione i resti organici sono esposti all’ossigeno dell'aria o dell’aqua, la so¬ stanza organica è distrutta. Ma in più si è fatto notare che nel nostro caso si tratta di resti vegetali già più o meno marciti, al¬ terati al momento della loro pietrificazione e conservanti quindi ancora più o meno o in parte, in qualche caso, la loro forma, ma raramente la loro marcata compagine strutturale. La concezione quindi del Buffon che riguardo la selce come una speciale trasformazione, autosilicizzazione di sostanza organica non è da respingersi nel caso presente, modificata e modernizzata s'intende. Infatti nelle piante la silice, quale sia l'importanza della necessità della sua presenza, è certo che si trova distribuita in tutti i tessuti e in tutti gli organi specie come materiale di infiltra¬ zione delle pareti cellulari e là dove il lavoro fisiologico è meno attivo; essa è sempre molto diffusa nelle ceneri vegetali, come an¬ che, è da notarsi, nel ricambio organico dei funghi. Interessante, d’altra parte, è la presenza più o meno decisa che a volte si riscontra di radiolari, eliozoi e forameniferi in varie - 40 — schegge e laminette esaminate, perchè conforta l'ovvia supposizio¬ ne che alle dette formazioni selciose oltre questi resti vegetali più o meno alterati dall’azione enzimatica di funghi abbiamo contribuito i detti organismi su questi resti viventi o meglio da questi resti trattenuti quale residuo di filtraggio della corrente che li trasporta¬ va, sia con la sostanza gelatinosa dei loro corpi che con quella inorganica dei loro scheletri. In conclusione riguardo poi alle piante che vissero in alcune località del Gargano durante il cretaceo (inferiore e superiore) data la frammentarietà dei resti conservatisi in modo tale da potersi esa¬ minare a microscopio, non può stabilirsi altro se non che furono piante di affinità Angiospermica (con ogni probabilità Gnetacee), vere Angiosperme (con ogni probabilità Querci) probabili Cicadee, felci di affinità varia. Continuando la ricerca intrapresa è probabile che potranno ottenersi conclusioni più precise più ampie, più soddisfacenti di queste cui son potute fin'ora pervenire (1). Riassunto. Si ricordano le varie opinioni suggerite sull’ origine della selce. Sono espo¬ ste indagini paleobotaniche riguardanti alcune località del Gargano; prospettata in dette località la presenza di una flora composta di piante di affinità Angio¬ spermica, di vere Angiosperme, di Cicadee, di felci di affinità imprecisabile. Ringrazio l'Illustre Prof. Senatore De Lorenzo che mi ha proposta la detta ricerca, unitamente all' Illustre Prof. Geremia D’Erasmo. (1) Microfotografie e disegni illustrativi faranno parte di una prossima pub¬ blicazione a completamento della ricerca avanzata. Le terrazze della Penisola Sorrentina. del socio Francesco Castaldi (Tornata del 20 agosto 1941) Il Rovereto ( Studi di Geomorfologia, Voi. I, Genova 1908), osserva nell'isola di Capri sei differenti livelli di terrazze, forma¬ tisi durante i periodi in cui si ebbe l'emersione dell'isola. La più cospicua è la terrazza su cui sorge Anacapri, limitata dalle isoipse di 270 e 290 metri. Ordiniamo la successione di questi sei distinti livelli progressivamente dal più basso al più alto : 1) m. 5 : terrazza ricoperta di brecce marine, invasa dal mare nelle mareggiate, che si presenta con l'aspetto di nuda piatta¬ forma rocciosa ; 2) m. 15 : j terrazze sotto Damecuta (angolo NW) e lungo la co- ' sta occidentale, specialmente nei pressi del Faro, di 3) m. 50 : \ Campetiello, di P. Capocchia, ecc. 4) m. 150 : terrazza ben distinta in regione Damecuta e alla Certosa ; 5) m. 270-290: terrazza predetta su cui sorge Anacapri (fig. 1); vi possono corrispondere ad E la sommità del poggio del Semaforo (m. 260), del Forte di S. Michele (m. 245) e del Castello (m. 260). 6) m. 585 : tracce di spianamento nella parte più elevata dell’isola,, e cioè sulla vetta del M. Solaro (fig. 2). 5 — 42 — Sempre seguendo le osservazioni del Rovereto, questa serie ha riscontro nella vicina Penisola Sorrentina, che " in un proten- dimento tra Sorrento e Massalubrense presenta distinti quattro terrazzi, a 30, a 50, a 140, a 230 m. di altitudine Infatti nel tozzo e piccolo promontorio è facile individuare lo spianamento di m. 30 al Capo di Massa, quello di m. 50 alla Punta di Sorrento, quello di m. 140 sopra il precedente, presso Case De Simone, ed infine l'ultimo di m. 230 presso Monte Corbo, sotto il precedente. Fig. 1. — Terrazza di Anacapri. Ediz. Brogi Ai quattro livelli indicati dal Rovereto nell’ estremità della Penisola Sorrentina corrispondono i quattro livelli di Capri, e propriamente : Sorrento Capri m. 30 m. 15 m. 50 m. 50 m. 140 m. 150 m. 230 m. 270-290 — 43 — Prima di addentrarci nella complicata e difficile questione del 'terrazzamento della Penisola Sorrentina è necessario premettere che non è facile stabilire con esattezza equiparazioni, in quanto come giustamente osserva il Dainelli (Guida dell escursione alla Penisola Sorrentina , in Atti XI Congr. Geogr. It., Napoli 1930, voi. IV), un complesso di elementi contradditori rende difficile risolvere le questioni, che a prima vista appaiono semplici e distinte. Tali Ediz. Brogi. Fig. 2. — M. Solaro con tracce di spianamenti sulla vetta. elementi in particolare sono : variazioni di spostamenti verticali, sommersione posteriore al sollevamento e retrocessione esercitata dal mare. Specialmente per quest’ultima, aggiunge il Dainelli, “ quando noi troviamo un orlo di terrazza affacciarsi, oggi, al fianco costiero della Penisola Sorrentina, dobbiamo assai spesso dubitare che esso sia di una terrazza costiera : assai più facilmente invece di una terrazza valliva, di qualche valle matura o vecchia, la quale si raccordava un tempo con una terrazza costiera successivamente distrutta L'osservazione del Dainelli, che in un certo qual modo ha carattere d'intuizione, in quanto non è confortata da un minuzioso — 44 — studio del terreno, è di grande importanza, perchè ci è stato pos¬ sibile trovarne conferma attraverso una paziente indagine della morfologia del suolo, che molte volte si mostra ribelle a farsi in¬ terpretare. Tutta la costiera amalfitana, scrive sempre il Dainelli, è assolutamente senza indizi di terrazze : " l’azione demolitrice del mare dev'esservi stata intensissima. Lo prova l’estrema ripidità del suo fianco, per la quale, come per la stessa intensità e rapidità dei sollevamenti, si sono incisi profondi valloni, e le selvagge gole che costituiscono una delle sue tante bellezze paesistiche „. Alcuni indizi di terrazze vallive lungo la costiera amalfitana sono riportati dallo stesso Dainelli, ma noi ne abbiamo ritrovati molti altri, specie lungo tutta la vallata di Tramonti e lungo il vallone del Dragone , per cui abbiamo potuto ricostruire l’andamento del pre¬ cedente sistema idrografico, la sua azione modellatrice del suolo, le trasformazioni ed i mutamenti morfologici che ne sono seguiti. Ma di ciò parleremo a suo tempo ; per il momento, prima di tentare un'individuazione più completa delle terrazze della Penisola Sor¬ rentina, crediamo necessario premettere un cenno sulla tettonica e sulla morfologia della Penisola e di Capri, anche per comprendere il significato dell'espressione del Rovereto, che quest’ultima è "di uno stampo posteriore ai tempi pliocenici », con la quale egli ci dice che le terrazze e le superfici terminali addolcite sarebbero del Quaternario, avendo avuto inizio la emersione al termine del Plioce¬ ne, in contraddizione a quanto affermarono il Walther, I'Oppenheim e il Gùnther, i quali ritennero che Capri, nell’Eocene, fosse presso a poco come oggi. I terreni, che costituiscono la potente pila di strati che si aderge nella Pe¬ nisola Sorrentina, dalla stretta doccia che la divide dalle pendici dei monti Campani alla Punta della Campanella, si possono riassumere cronologicamente nel modo che segue : A - dolomie e calcari dolomitici spettanti al Secondario inferiore (Trias) ; B - calcari del Secondario superiore (Cretaceo) ; C - marne e scisti argillosi con arenarie brune o giallognole e brecciole calcaree e foraminifere del Terziario inferiore (Eocene) ; D - tufi vulcanici ; E - brecce e conglomerati di formazione postpliocenica. E' facile osservare che la serie geologica è interrotta da considerevoli « hiatus » facendo astrazione dai terreni più antichi, anteriori al Triassico, che non affiorano — 45 — in sito, mancano i termini corrispondenti al Secondario medio e quelli che rap¬ presentano il Terziario medio e superiore. Delle tre possibili ipotesi, atte a spiegare tale mancanza, proposte dal Dainelli (Guida della Escursione alla Penisola Sorrentina cit.) e cioè: lacuna geologica, risultato di fatti tettonici, imperfetta distinzione locale di livelli cronologici, noi crediamo che la seconda sia la più verisimile. E' impossibile, infatti, pensare ad una mancanza di sedi. tentazione, quando è noto che terreni del Giura si rin¬ vengono nell'isola di Capri, dove le accurate ricerche del Parona ( Titonico e Cretacico nell'isolo di Capri , in Rend. Acc. Line., Cl. Se. Fis., S. V, Voi. XXVIII, Roma, 1919) posero in evidenza un orizzonte Neogiurassico o Maini. Non si può, dunquer ammettere che tale orizzonte sia presente nella predetta isola e manchi del tutto nella Penisola Sorrentina, quando è risaputo che Capri rappre¬ senta il naturale prosieguo della Penisola stessa. Del resto, per tutta l'estensione dell'Italia meridionale il De Lorenzo ( Studi di Geologia nell' Appennino Meridionale , in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, Voi. Vili, S. II, N. 7) già pose in evidenza la limitatezza dei depositi del Giura, mentre la maggiore estensione è rappresentata dalle grandi e massicce moli calcaree " che qualche volta, ma non sempre, nelle parti inferiori, conten¬ gono fossili del Giura, e altre volte nelle parti superiori hanno un mantello di calcari nummulitici dell'Eocene medio; mentre le grandi masse centrali, che sono di per se stesse in generale potenti più di 1000 metri e che costituiscono da sole le lunghe zone di grosse montagna, constano essenzialmente di calcari a requiem', rudiste e nerinee della Creta „ (De Lorenzo, Geologia deli Italia Meridionale, Nuova edizione a cura di D'Erasmo, Napoli, 1937). Allo stato attuale delle nostre conoscenze dei terreni costituenti l’Appennino meridionale, il Giura può dirsi limitato alla Calabria settentrionale, alla Lucania meridionale, all'isola di ( apri e al Circeo. Indubbiamente non è possibile attri¬ buire tale limitatezza di depositi giurassici a mancanza di sedimentazione, nè si deve credere che la lacuna dipenda da imperfetta distinzione locale di livelli cronologici. Se, infatti, pei la Penisola Sorrentina, la scarsa conoscenza dei ter¬ reni fece attribuire fino a poco tempo fa tutta la massa di Hauptdolomit e di •calcari dolomitici per intero al Cretaceo, per la Penisola l'errore è giustificato dalla difficoltà che si incontra nel diagnosticare le rocce, sia per la inaccessibilità di molti fianchi e pareti, sia per una complessiva uniformità litologica, sia, infine, per le complicanze di carattere tettonico. Ma la lacuna o scarsità di depositi giurassici non è limitata alla s >la Penisola, perchè si estende a gran parte del- l’Appennino meridionale, ove ^i verifica la diretta sovrapposizione dei calcari •cretacei alle dolomie triassiche. La ragione più plausibile si può, dunque, ricercare innanzi tutto nel risultato di fatti tettonici, a cui furono sottoposte le predette masse, specie nella catena appenirnica tirrena, dalla valle del Crati a quella del Liri, ove il sollevamento orogenetico fu maggiore e le costrizioni più forti, tanto da dar luogo a dislocazioni accentuatissime, le quali interessarono, in un primo tempo, le masse giurassiche, sconvolgendo, fratturando e distruggendo gli strati. Se al risultato distruttivo del complesso di fatti tettonici si aggiunge una successiva ed intensa azione di denudazione, intercorsa tra il sollevamento delle masse giurassiche e la sedimentazione del Cretaceo, non parrà inspiegabile il fatto che n depositi della Creta ammantarono direttamente i più sottili e molli sedimenti «del Trias, senza un accenno di discordanza stratigratica fra gli uni e gli altri. — 46 — A mancanza di sedimentazione, invece, possiamo attribuire la lacuna dei terreni miocenici nella Penisola Sorrentina, mentre la lacuna del Pliocene può- trovare una possibile spiegazione solo nelle successive ed intense azioni di de¬ nudazione, tanto più rapide quanto più erte erano le superfici, su cui quei ma¬ teriali si erano depositati. Dopo tale necessaria premessa, passiamo ad esaminare brevemente la tettonica- delia Penisola, la cui interpretazione rappresenta ancora oggi uno degli argomenti più discussi e controversi per la conoscenza geologica d’Italia : molte ipotesi sono state avanzate dal Walther all’OppENHEiM, dal Suess al De Lorenzo e dal Bòse al Rovereto. Il Walther (Walther u. Schirlitz, Studien zur Geologie des Golfes volt Neapel, in Zeitschr. der Deutsch. geol. Ges., 1886,) per il primo affacciò l'ipotesi che la Penisola Sorrentina fosse attraversata da due serie di fratture, longitudi¬ nale la prima, lungo la Penisola e l'andamento degli strati, e trasversale la se¬ conda, dovute a due distinti periodi di dislocazioni, il tirrenico (Cretaceo per le longitudinali) e l' appeninico (Oligocene per le trasversali;. L’Oppenheim ( Beitràge zur Geol. der Insel Capri ecc. in Zeitschr. deutsch. geol. Gesell., Voi. XLI, 1889) invece, si distaccò dal Walther in quanto non ammise le due serie di fratture, asserendo che la pila di strati che costituisce la Penisola fosse poco disturbata. Infine il Suess ( Das Anilitz der Erde, Bd. I, Wien-Leipzig, 1888) interpretò la Penisola come un horst, cioè come una zolla residua fra due aree di spro¬ fondamento. La geniale interpretazione del De Lorenzo ( Studi di Geologia nell’ App. Mer. cit.) seguita dal Bòse ( Contributo alla Geologia della Penisola di Sorrento , in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, Voi. Vili, S. II, N. 8) costituisce la critica più chiara ed obbiettiva alle ipotesi dei tre citati autori. L’errore, per così: dire, del Walther consiste nel fatto che egli volle attribuire la serie di fratture longitudinali al Cretaceo, e quella di fratture trasversali all'Oligocene; in tal caso, contrariamente alla sua datazione, le prime dovrebbero essere le trasversali e le seconde le longitudinali, perchè i due grandi blocchi longitudinali, come osserva il Bòse, della Bucata e del M. Pertuso sono tagliati dalle fratture trasversali di Valle di Tramonti e di Positano e perchè l’apparente sopraspinta del M. S. Angela dimostra che dopo la sua formazione il corrugamento orogenetico è ancora con¬ tinuato. Ma le fratture trasversali del Walther non potettero precedere quelle longitudinali, in quanto i terreni del Terziario inferiore appaiono strettamente presi negli strati calcarei, quasi a dimostrare che entrambi sono stati interessati da intensi fenomeni tettonici. L' altra osservazione del Walther, seguito in¬ questo dall'OppENHEiM, che i terreni del Terziario inferiore si siano depositati solo nelle bassure prodotte dai fenomeni di fratturazione del I periodo, è anche essa poco ammissibile. Infatti se nell’Eocene la Penisola era all'asciutto, come affermano entrambi gli studiosi predetti, perchè i sedimenti eocenici (secondo la. datazione data anche dall'OppENHEiM al macigno che Walther giudica oligoce¬ nico) si depositarono nella parte sud-ovest e non sull’ Hauptdolomit della Valle di- Tramonti, che è anche abbastanza profonda? E' invece molto più semplice ed evidente immaginare che i terreni del Terziario inferiore ricoprissero originaria¬ mente per^tutta l'estensione della Penisola quelli del Cretaceo; che entrambi siano stati interessati dalla duplice serie di fratture ; che i materiali eocenici siano ri- — 47 — masti limitatamente nella sola estrema parte della Penisola per la minore eleva¬ zione e la minore inclinazione di tale superficie topografica, che naturalmente ha subito meno intensa l’azione distruggitrice degli agenti esogeni. Del resto tale fatto conferma l'ipotesi precedentemente esposta circa Vhiatus che si osserva fra i terreni della Creta ed i molli sedimenti del Trias, in quanto i primi sono so¬ vrapposti ai secondi senza un accenno di discordanza stratigrafica. L'ipotesi del Suess è fondamentalmente errata ; l'interpretare la Penisola quale zolla residuale fra due bacini di sprofondamento significa non aver osservata la direzione e la pendenza degli strati nè nel versante meridionale, nè in quello settentrionale della Penisola stessa, nè da un lato e dall altro del solco di Cava, nè infine nelle propaggini montagnose dell'Appennino meridionale che delimitano il golfo di Napoli. La migliore confutazione della ipotesi del Suess è data dalla interpretazione, che il De Lorenzo ( Studi di Geologia nell' A p penino Meridionale cit.) ha fatta della Penisola. Dopo un breve cenno sui terreni fondamentali costituenti il bacino sedimentario di Napoli, che accoglie nel suo grembo la formazioni eruttive, egli così si esprime : « La disposizione tettonica di questo bacino sedimentario non corrisponde, come Suess ha supposto e gli altri dopo di lui hanno inconsciamente ripetuto, a uno sprofondamento circolare, a un Kesseleinbruch, e la penisola di Sorrento non può riguardarsi come un Horst, rimasto sollevato tra i due sprofondamenti del golfo di Salerno e il bacino di Napoli. Infatti a Capri gli strati dei calcari cre¬ tacei, tanto nel blocco orientale che in quello occidentale dell'isola, inclinano ripidamente a nord-west immergendosi al Faro, a Damecuta e alla Marina Grande sotto le onde dei mare. Similmente tutta la enorme pila calcarea che costituisce la parte occidentale della penisola di Sorrento inclina con grande uniformità e pendenza verso nord-west, il che era stato già riconosciuto e chiaramente de¬ scritto da Hoffmann prima e dal Puggard poi. Nella parte orientale, rappresen¬ tata dal monte Pertuso, l'inclinazione della Hauptdoloinit e della Creta volge direttamente a nord, ma poi nei monti di Sarno ripiglia la sua primitiva posizione verso nord-west che passa verso west nei monti di Caserta e verso west-sud-west in quelli di Sparanise per poi volgersi direttamente a sud-west nel monte Massico e nella Rocca di Mondragone. Si vede così che gli strati sedimentari vanno a mettersi tutti quanti sotto le rocce eruttive verso cui inclinano e quindi non danno luogo a uno sprofondamento circolare ; si vede inoltre che la penisola di Sor¬ rento e il monte Massico non rappresentano degli Horste e che tutto il bacino sedimentario può considerarsi come una grandissima conca sinclinale aperta a occidente, o meglio come un semiparaboloide ellittico, di cui l’apertura è rivolta verso sud -west, il vertice si trova a nord-est, il piano della parabola direttrice è parallelo alla superficie del mare e quello della parabola generatrice è a questa perpendicolare „. Questo semiparaboloide ellittico di terreni sedimentari lo si deve pensare enormemente fratturato e spostato. Le fratture che operarono lo spezzettamento della massa di strati del Secondario e del Terziario inferiore appartengono a due serie fra loro perdendicolari, che, specialmente nella Penisola, per rigetti succes¬ sivi dei singoli lembi, ridussero la massa uniclinale di strati ad una gigantesca gradinata nelle due diverse direzioni. Tali fratture, a differenza di quelle im¬ maginate dal Walther e distinte in appenniniche e tirreniche, sono coeve e — 43 — furono prodotte dalla prima fase e accentuate dalla seconda. Esse prendono il nome di longitudinali, o periferiche e di trasversali, o radiali. Questo motivo tettonico che il De Lorenzo estende anche alla prossima isola di Capri, che è la naturale continuazione della Penisola Sorrentina viene oppu¬ gnato dal Rovereto {L'isola di Capri, in Studi di Geomorfologia cit.), il quale preferisce fare intervenire fenomeni di carreggiamento. Partendo dalla constata¬ zione che " sempre il terziario affiora al di sotto del secondario,, e da alcune osservazioni tettoniche, come ad esempio la forma che hanno assunto gli strati curvati quasi ad arco al centro e raddrizzati nell'alta falesia sottostante al Palazzo di Tiberio, alla base dei quali, quasi a livello del mare affiora l’Eocene riccamente fossilifero della cala di Punta Longa e della Fossa , così pure alla cala Caterola, ove egli osserva il Cretaceo abbassato per una sinclinale trasversale, dal cui fianco rialzato ricompare l’Eocene immerso a Levante, egli conclude che la struttura m^noclinale è solo apparente e che « la massa calcarea . piegata sul¬ l'Eocene in forma di piega coricata, aperta verso il sud . della quale è ben visibile tutto il fianco normale superiore con parte del fianco mediano, ha le sue radici immediatamente a sud dell'isola, dove si è conformata, sollevata e poi ribaltata, con la sua parte superiore, verso settentrione „. Circa la depressione mediana dell'isola, il Rovereto non crede che si tratti di un fossato di sprofon¬ damento, ma che " l’Eocene, affiorando dal di sotto del Cretaceo, forma in cor¬ rispondenza di essa un più ampio anticlinale trasversale di cui qualche tratto è visibile alla Marina Grande o nei suoi pressi, da sotto i tufi vulcanici ; ed è poi visibilissimo, con il suo fianco occidentale ed immerso regolarmente a ponente, presso i ruderi dei bagni di Tiberio ed oltre Passando alla struttura della Penisola Sorrentina, crede " che questa sia co¬ stituita della stessa piega coricata di Capri , ma alquanto meno rialzata e avente conservata parte della copertura eocenica, mentre è mancante della fascia eocenica affiorante dal disotto, ossia è riconoscibile di questa il solo fianco normale su¬ periore. Inoltre si può credere che l'isola sia alquanto più interna della penisola di Sorrento, rispetto all’arco descritto dal complesso della cintura orientale del golfo di Napoli ; e ciò, se può indicare che l'isola rappresenta una parte più avanzata e più profonda del coricamento, spiega pure perchè il protendimento marino che congiunge Capri al continente sia diretto in modo da contrapporsi alla costa della penisoletta, sotto Massalubrense, e non alla sua punta estrema,,. Circa le fratture, il Rovereto ne ammette una trasversale a N di Massalubrense; due, dentro le quali è sprofondata la depressione trasversale di Sorrento, ma non esclude che ne esistano anche altre. Ipoteticamente ammette, poi, una frat¬ tura longitudinale, avvicinata alle coste orientali ed estesa fino a Capri. Queste le ipotesi o meglio le asserzioni del Rovereto. Circa la tettonica della Penisola Sorrentina si può subito osservare che il divario fra la sua interpretazione e quella del De Lorenzo non è poi tanto grande. Per Capri, invece, per quanto la questione oltremodo complicata e controversa ci allontani dal nostro argomento, per cui non crediamo opportuno entrare riso¬ lutamente in merito ad essa, tuttavia non è possibile prescindere da alcune os¬ servazioni di carattere generale, che faremo in seguito. — 49 — Procediamo, dunque, ad una più ampia individuazione delle terrazze delle due costiere sorrentina ed amalfitana. Innanzi tutto bisogna premettere che la nostra elencazione non è completa nel senso assoluto, in quanto chiunque conosca da vicino la topografia della Penisola sa bene quante difficoltà s’incontrano nel percorrere un terreno tanto accidentato ; nè del resto lo scopo della nostra ricerca è quello di presentare un elenco completo, bensì di ten¬ tare una spiegazione di tale terrazzamento, inserendolo nel auadro generale del fenomeno che si rinviene nell’Italia meridionale. Non bisogna nascondere che le difficoltà incontrate non sono state poche in quanto non è stato sempre possibile stabilire un'e¬ quiparazione dei vari livelli, perchè a complicare la già complessa interpretazione tettonica e morfologica della Penisola son interve¬ nuti vari coefficienti , quali ineguaglianze di irtensità di solleva¬ mento, fenomeni di sommersione, che hanno interrotto il movimento ascei sionale, ed il processo di retrocessione esercitato dal mare, abbastanza rilevante anche dopo il Pliocene, mentre si verificava piogressivamente il processo ascensionale interrotto da stasi. Co¬ munque, per il momento, presentiamo un elenco delle terrazze os¬ servate : Costiera Sorrentina. A) Terrazze costiere. Sono di recente formazione ed offrono la maggiore probabilità di equiparazioni ; tuttavia le tracce sono poche *. 1. Punta S. Elia, a S. di Sorrento, m. 22. 2. Capo di Sorrento, a S. della Villa di Rollio Felice, presso il cosiddetto Bagno della Regina Giovanna. 3. Marina di Sant’Agnello. B) Terrazze di m. 5C 1. Punta di Sorrento, m. 60. 2. Punta della Campanella presso la Lanterna, m. 47. 3. Piccolo lembo di terrazza presso gli scogli Tre Fratelli, m. 70. 4. Lembo di terrazza non lontano dal cantiere di Castellam- ,mare, in corrispond mza di S. Maria a Pozzano, m. 70. — 50 — 5. Lembo lungo e sottile, che si attacca al basso fianco del Faito, presso il ricostruito Castello Angioino, m. 80. 5. Orlo della parete precipite con cui termina la piana di Sorrento, localmente inciso da qualche solco torrentizio, m. 50 (fig. 3). La piana si rialza dolcemente verso l'interno, fino a m. 70, poi tenui pendici la raccordono ai fianchi delle colline ^fig. 4). Ediz. Anderson. Fig. 3. — Piano di Sorrento. 7. Orlo della parete precipite con cui termina la piana di Vico Equense, più limitata di estensione rispetto alla piana di Sorrento, m. 80. Presso il limite meridionale è profondamente incisa da un torrente, che a sua volta vi ha già formata una piccola piana, ricoperta da agrumi, raccordantesi con l’attuale riva del mare. C) Terrazze di m. 140. 1. Terrazzetta subito ad occidente di Sorrento, m. 140. 2. Ripiano di Massalubrense ; il margine interno presenta l'altitudine di m. 150, mentre il margine esterno si abbassa a m. 115-120. — 51 D) Terrazze di m. 150-230. 1. Tenue ripiano sopra la Punta Gradelle, a N dalla piana di Sorrento. 2. Addolcimento del pendio nella pendice occidentale di S Nicola (Lettere) sul ffanco settentrionale dei monti sorrentini, mm. 200-225. Edlz. Brogi. Fig. 4. — Piana di Sorrento raccordatesi ai fianchi delle colline (Dalla strada da Positano-Sorrento). E) Terrazze con livello superiore. 1. Spronetto spianato del Monte Corbo tra Sorrento e Massa- lubrense, m. 230. 2 Tracce di livello accennante ad una vecchia superficie, costituito dallo sprone di Montoro, ai piedi di Monte Pezzulli, tra Vico Equense e Castellammare, m. 280. 3. Terrazza di Lettere, m. 340. — 52 — Costiera Amalfitana. A) Terrazze costiere. 1. Terrazza a circa 3 km. ad W di Positano, m. 10. 2. Terrazza ad oriente della Punta di Capo di Conca, m. 6. B) Terrazze di m. 50. 1. Ripiano a SW degli scogli di Recommone, m. 47. 2. Terrazza sulla quale sorge la parte alta di Vietri, m. 80. È breve, molto angusta nel fondo, e di sopraincisione rapida e recente (figg. 5 e 6). Fig. 5. — Terrazza di Vietri. Neg. Castaldi. C) Terrazze di m. 140. 1. Stretto promontorio della Torre di Montalto, subito ad Occidente della Punta della Campanella, m. 125. 2. Spronetto sopra la marina del Cantone, m. 130. 3. Piccolo ripiano costiero di fronte allo scoglio Isca, m. 142. - 53 - D) Terrazze di m. 150-230. 1. Spronetto suH'estremo fianco destro della Valle di Tra¬ monti, ad Occidente di Maiori, m. 220. 2. Poggerello sporgente appena dal fianco sinistro della predetta Valle e sul quale sono i ruderi del vecchio Castello, m. 240. i Neg. Castaldi. Fig. 6. — Terrazza di Vietri di sopraincisione rapida e recente. E) Terrazze con livello superiore. 1. Spronetto spianato sul fianco sinistro della Valle di Tra¬ monti, poco prima di Ponte Primario, m. 300. 2. Spronetto spianato sul fianco destro della Valle di Tra¬ monti, poco prima di Ponte Primario, m. 260. 3. Piccolo ripiano sul fianco destro della Valle del Dragone, sotto il villaggio di Minuto, m. 290-300. 4. Piccolo lembo sotto la Chiesa di Minuto, m. 315-320. 5. Altri lembi sullo stesso fianco destro della Valle del Dra¬ gone presso Scala ed a monte di questa, m. 320-350 (figg. 7 e 8). — 54 — Ediz. Sorrentino-Ravello. Fig. 7. — Lembi terrazzati sul fianco destro della Valle del Dragone presso Scala. Fig. 8. — Lembi terrazzati presso Scala. Neg. Castaldi. — 55 6. Sottilissimo lembo di ripiano sul fianco meridionale di M. Brusara, detto il Monte, m. 400. 7. Lembi a varia altezza fra i 400 e i 300 m., sul fianco si¬ nistro della valle, sottostanti a Ravello e raccordantisi con quelli del fianco destro della valle. Neg. Castaldi. Fig, gt _ Villaggio di Pogerola (in fondo in alto) nella Valle dei Molini con tracce di spianamento. 8. Tracce di spianamento nella Valle dei Molini, sotto il vil¬ laggio di Pogerola, m. 300. 9. Tracce di spianamento nella Valle dei Molini, a monte di Pogerola, m. 320-350 (fig. 9). — 56 — Altre forme di spianamento si rinvengono sulle pendici dei monti, che inclinano nel Solco di Cava, così ad es. si potrebbe vedere un accenno di terrazza nella forma allungata e spianata della collina, dov' è la Masseria di S. Pantaleone, a S di Nocera, m. 224 ; si può rinvenire ancora qualche traccia più o meno chiara sul fianco orientale della doccia valliva, tra Nocera e Vietri, e alle spalle di quest'ultima. Infine il villaggio Corpo di Cava è costruito sopra un ripiano di m. 400, che vari autori hanno indi¬ cato come formato superficLlme e di brecce marine e di brecce di pendio. Infine, possiamo ricordare i ripiani di Agerola e di Ravello, che si affacciano dall’alto sulla dirupata e scoscesa costiera amal¬ fitana; il primo, per la sua massima estensione, si trova tra i 630 e i 640 m. d'altezza, ma si rialza nel suo margine esterno fino a toccare le quote di m. 646, 656 e persino, in alcuni tratti, di m. 670. Data la sua altitudine si sarebbe indotti a definirlo come terrazza costiera, formata dal mare pliocenico, anteriormente alla sua regressione. Il secondo (figg. 10 e 11) raggiunge nel suo orlo meridionale, nei pressi di Villa Cimbrone , i 393 m. d’altezza, si abbassa verso il Palazzo Rufolo , ed ancor più a Madonna delle Grazie fino a m. 315, e si risolleva nuovamente fino a toccare i 400 m. presso la località S. Martino. In effetti il paese sorge su due ripiani, l’uno meridionale, l’altro settentrionale, che hanno per cen¬ tro rispettivamente S. Chiara e il Palazzo D’Afflitto (oggi Albergo Belvedere), separati da una specie d’insellatura centrale. Un altro poggerello, a mo’ di contrafforte, proteso verso la Valle della Regina, si estende ad E di Ravello, e si ricollega alle sue pendici orientali al di sotto del palazzo Confalone e del Pa¬ lazzo D’ Afflitto. La forma di quest'ultimo è somigliantissima a quella di Ravello, elevato nel punto terminale, sbassato nel centro, e nuovamente rialzato nel tratto di congiunzione con le pendici che scendono dal contrafforte di Ravello. La sua altezza media è intorno ai 250 m. * * * Queste sono le terrazze che ci è stato dato a rintracciare com¬ presi i probabili indizi. Ora passiamo alla discussione, o meglio,, consideriamo prima di tutto alcuni analoghi terrazzamenti della Campania. 57 Ediz. Anderson. Fig. 10. — Sprone di Rovello visto da Scala. Ediz. Anderson. Fig. 11. — Sprone di Ravello visto da Minori. 6 — 58 — Al Galdieri {Le terrazze orografiche dell’alto Picentino a Nord-Est di Salerno , in Boll. Soc. Geol. It., XXIX, 1910) si deve il migliore studio sulle terrazze vallive deH'Appennino Salernitano. Raccomando le terrazze fra un fianco e l’altro, lungo la valle del Picentino, che sbocca presso S. Severino Rota, il Galdieri ha ricostruito tre fondi di ampi e valli ; l’uno a un livello superiore dell’altro, a morfologia matura, il superiore anche vecchia, e ciascuno ricoperto da una più o meno potente coltre di conglomerati. E’ evidente che questi siano dovuti a un'azione di deposito, e la ter- razzatura ad una di sopraincisione. La spiegazione data dal Gal- dieri è la seguente : le acque correnti scarse delle fasi glaciali esercitarono un’azi ne di deposito, quelle abbondanti delle fasi interglaciali un'azione di sopraincisione. Egli data anche le terrazze, in quanto ritiene che la deposizione delle tre falde di conglomerati, ricoprenti la triplice serie, si sia verificata quando si deponevano le morene delle ultime tre fasi glaciali, cioè nelle età mindeliana , rissiana e wurmiana ; la incisione di quelle tre falde e la conse¬ guente formazione delle tre serie di terrazze, avrebbe avuto luogo nelle tre epoche interglaciali ad esse rispettivamente seguite, e cioè nell ’età interglaciali post-mindeliana) post-rissiana e post-wurmiana. Le altitudini relative alle tre terrazze sono le seguenti : la m. 166 2a m. 220 3a m. 320 La la rappresenta un livello superiore di pochi metri al fondo attuale della valle, la 3a è presso lo sbocco della valle a S. Seve¬ rino Rota, nella fascia costiera. Circa la genesi del triplice ordine di terrazze, egli ragiona in questo modo: nel Quaternario, anteriormente alla comparsa dell’uomo, nell' epoca in cui nelle Alpi si formavano gli ultimi depositi interglaciali postgunziani, il penepiano pre¬ glaciale, di cui si osserva qualche traccia verso i 1C00 m. nelle brevi superfici pianeggianti della regione picentina, era già profondamente sezionato e smembrato, per quanto restassero tratti più ampi di quelli odierni, sui quali si elevavano pa¬ recchie eminenze fuoriuscenti dalla superficie ondulata (cioè dal penepiano), quali i monti Licinici, Accellica e Pizzi. L'alto Picentino aveva già profondamente in¬ ciso quel penepiano ; esso costituiva una valle abbastanza ampia, che dall'Accel- lica si dirigeva verso S per sboccare all' altezza dell'odierno S. Severino Rota in un altro corso d’acqua, proveniente per la sella di Montecorvino dai monti orien¬ tali e proseguente, attraverso quella di Pezzano, verso la valle dell'lrno. Trasver¬ salmente quella valle si estendeva dalle falde della sella dell'Arvanella alla base — 59 — del Licinici. Il clima non era dissimille dall'attuale, ma forse precedentemente, a metà dell’età corrispondente alla fase interglaciale postgunziana, era stato ancora più caldo, mentre la vegetazione, per mancanza di humus , era meno ricca di quella attuale. Tuttavia un più ricco mantello vegetale ricopriva le plaghe marnose verso Toppo Corno ed i Cerretielli. Il fenomeno carsico era molto attivo. Il Picentino aveva da tempo rallentata l'erosione del suo letto, e perciò la valle aveva potuto allargarsi. Ma all'inizio della fase mindeliana, il clima cominciò a raffreddarsi, per cui il limite delle nevi permanenti discese nelle nostre regioni tra i 1800 e i 1400 m. Le piogge divennero più rade e la vegetazione si rifugiò nelle bassure. Le pareti rocciose sottoposte all'alterna azione del gelo e del disgelo si ricopri¬ rono di sfasciume roccioso. L' acqua, derivante dalla fusione lenta delle nevi, facilmente percolante attraverso i depositi detritici, giungeva alla roccia sottostante, anch’essa permeabile, sicché poca ne perveniva alla valle. Però in primavera e in estate le nevi si fondevano ed i torrenti, rovesciandosi con impeto a valle, vi deponevano lo sfasciume roccioso; ma, incontrando nei primi tempi il pendio più dolce, prodottosi nella fase precedente ed in prosieguo i depositi delle piane, deponevano il carico pesante, per cui allo sbocco di ogni vallecola si formava una conoide di deiezione abbastanza considerevole. A poco a poco queste, cre¬ scendo, si fondevano tra di loro con quelle di lato e di fronte, ingombrando la valle e le vallecole. Il Picentino, dopo di aver errato per un tempo pigramente fra esse, finì con lo scorrere, durante i periodi di magra, sotterraneamente tra le ghiaie, mentre durante le piene, sovraccarico dello sfasciume prodotto dagli estesi geli sui versanti, riusciva appena a livellare i materiali sempre esuberanti, che gl'ingombravano il letto. Questo, in tal modo, venne lentamente ad elevarsi, raggiungendo verso 11 centro della valle un'altezza superiore di un centinaio di metri al livello precedente. Se il crescere dei depositi elevava il letto, il mag¬ giore sviluppo delle conoidi di sinistra faceva spostare il corso verso Occidente. Fu allora che si deposero le ghiaie delle Vene della Mola, della Serra Gifunara, di Paradino, di Qraziofoglia, di Rotonda e di Pozzale, le quali sono piccoli lembi della grande coltre alluvionale, che si stendeva su tutto il fondo-valle. Quando il rigore della fase mindeliana si raddolcì, per dar luogo al mite clima della fase posmindeliana, le cime delimitanti il bacino dell' alto Picentino cominciarono a rimanere sgombre di neve ; alle abbondanti nevicate nella stagione invernale si sostituirono le piogge, e la vegetazione riprese possesso delle alture, favorendo lo sviluppo dell' humus, e fissandolo alla roccia. A poco a poco cresceva la quan¬ tità d’acqua che arrivava nella valle dell’alto Picentino, e diminuiva quella di de¬ trito ; per lungo tempo il corso del fiume si perdeva ancora fra le ghiaie, poi i detriti gli permisero di scorrere alla loro superficie senza assosbirlo. Poiché le montagne ormai si erano spogliate dello sfasciume accumulatosi durante la fase mindeliana, il Picentino non impegnava tutta la sua energia nel trasporto del ma¬ teriale detritico verso il basso, per cui col supero di energia disponibile, comin¬ ciò con lo scavarsi un solco tra le ghiaie, nella parte più declive della valle. Così incise tutto lo spessore di queste, ed intaccò la roccia viva, approfondendovi il suo letto per un centinaio di metri al di sotto dell'antico letto postgunziano. In tal modo rimasero lateralmente delle estese terrazze, paragonabili a quelle attuali dell'ultima serie del Rio Secco. Nei frattempo il fiume scorreva sempre in una stretta gola, ma poi, scemata la pendenza, e rallentatasi l’erosione verticale, co¬ minciò quella laterale, e l'alveo andò allargandosi al punto che nel versante de- — 60 — stro in più parti raggiunse e forse in qualcuna sorpassò il limite occidentale def depositi della precedente fase mindeliana. Però specie nella sinistra, tra le valle- cole laterali, che naturalmente si approfondivano insieme con la valle principale, rimasero ancora, rispettate dalla erosione, parecchie terrazze. Per due altre volte, durante i cicli successivi, corrispondenti alla fase wurmiana e alla post-wurmiana, il clima prima si raffreddò e poi si raddolcì, riproducendo ad un livello sempre più basso effetti analoghi a quelli predetti ; poi le fasi successive furono meno intense e più brevi, e naturalmente gli effetti meno accentuati. Indubbiamente la ricostruzione del Galdieri è molto ingegnosa ed acuta, anche se lascia nudo in qualche parte il fianco all'azione della critica. Innanzitutto egli riconosce verso i 1000 m. nei monte del Picentino tracce del penepiano preglaciale. Però tali tracce dovrebbero essere anche visibili in altri sistemi orografici per i tratti superiori ai 1000 m. di altezza, mentre è facile constatare che i monti che superano i 600 m. di altezza, quali, ad es., il S. Angelo a Tre Pizzi (m. 1443) il Cervellano (m. 1204), il Cerreto (m. 1316) il Pertuso (m. 1140), tutti compresi nel territorio della Penisola Sorrentina, cioè in regione poco lontana da quella del Picentino; e così pure, un pò più discosti da questa, le tre mag¬ giori cime del Matese, quali il Miletto, la Gallinola e il Mutria, e, in prossimità del Picentino stesso, il Monna (m. 1192), il Liegio (m. 1086), il Pizzo S. Michele (m. 1563), il Pizzo dei Garofali (m. 1575), i Mai (m. 1294), il Vernacolo (m. 1193), il Garofano (m. 1377) e molti altri, mostrano la parte superiore dei loro fian¬ chi molto ripida, il che significa che il penepiano non era avan¬ zato. Possiamo ancora osservare che nella fascia costiera del Pi¬ centino vi sono rilievi collinosi costituiti da sedimenti marini pliocenici, nei quali è possibile riconoscere la successione stratigra¬ fica dal basso in alto di argille, sabbie e conglomerati. Tale serie sta a testimoniare il graduale assottigliamento del mare pliocenico fino all'estinzione. Ancora è possibile osservare che le colline che sorgono dietro M. Corvino, dinanzi allo sbocco del Picentino, sulla fascia costiera, alla quota di m. 593, culminano con conglomerati. Se osserviamo i primi monti retrostanti a questa serie collinare, e propriamente a 2 Km. ad W di Castiglione del Genovesi, consta¬ tiamo che questi presentano superfici piuttosto pianeggianti, quasi delle vere terrazze, mentre, le sommità non molto elevate tendono a raccordarsi a quel livello con superfici mature; dal che possiamo dedurre le seguenti conclusioni : 1) il livello dell’ultimo mare pliocenico corrispondeva all'at¬ tuale quota di 600 m. circa, ma non meno. 2) Ai due periodi principali di sollevamento testimoniati dai due livelli superiori di terrazze si deve aggiungere un altro pre¬ cedente, anche più intenso, col quale si è iniziata la regressione del mare pliocenico : il dislivello tra la terrazza superiore ed il livello pliocenico sarebbe di circa m. 300, 3) le superfici attribuite dal Galdieri al penepiano pregla¬ ciale spettano al livello superiore di terrazze ; anche se altrove, più a valle , un livello pliocenico può trovarsi ad elevazioni mi¬ nori. Infatti nella fascia costiera salernitana antistante allo sbocco della valle del Picentino, il livello del mare pliocenico risulta in corrispondenza dell'attuale quota di m. 600. Tra il corso inferiore del Picentino e Salerno, nella zona di affiora¬ mento di terreni pliocenici, le sommità costituite dai conglomerati terminali rag¬ giungono altezze sui m. 400. Paragonando tale altezza con quella del livello su¬ periore di terrazze, che il Galdieri attribuisce al penepiano, e che noi abbiamo assegnato all'azione abrasiva del mare pliocenico, si potrebbe credere che la dif¬ ferenza tra tale limite di terrazze, il livello di 600 m. del mare pliocenico nella fascia costiera, ed i 400 m. testé menzionati sia dovuta a una variazione nella intensità del complessivo sollevamento post-pliocenico. Eppure non è così, almeno per le ultime altezze di m. 400. Infatti, mentre sulla sinistra del basso Picentino i conglomerati pliocenici hanno una potenza di m. 300, scendendo dalla quota massima di 600 alla minima di 300, presso il corso del Picentino vi sono lembi più bassi, fino a m. 140. Così nella zona più vicina a Salerno, i conglomerati pliocenici scendono da una quota di m. 400 a una quota di m. 100. Però la dif¬ ferenza di m. 300 non rappresenta qui la potenza degli strati, come nei poggi sulla sinistra del Picentino, in quanto che tale potenza è di m. 100, come si os¬ serva scendendo per il fianco opposto a quello che cala verso il fondovalle del- 1’ Irno. Sottraendo dai m. 300 i m. 100 costituenti la potenza di tali strati ne risulta una di m. 200. Se aggiungiamo questi 200 m. ai m. 400 predetti si rag¬ giungono i m. 600. Tale livello di m. 600 si rinviene ancora a settentrione della piana nolana, dove i primi monti campani, tra il S. Angelo e il Fellino, presentano una som¬ mità uniforme di m. 600-660, spianata parallelamente al loro piede per un'esten¬ sione di Km. 4. Questo livello di 600 m. si deve anche ammettere per la Peni¬ sola Sorrentina, per quanto ne manchino indizi. Infatti nella parte estrema occi¬ dentale della Penisola le sommità sono più basse dei m. 600, e le loro forme arrotondate, mature o vecchie, denotano l'azione di cicli precedenti. Fa eccezione il Monte Vico di Alvano, con i suoi 643 m., ma non è possibile riconoscervi al¬ cuna traccia di terrazza. Qualche larvato indizio possiamo trovare lungo la co¬ stiera sorrentina, quale la sommità collinosa e quasi spianata del Monte Pendolo, -che raggiunge i m. 550 e 610; così ancora presso Gragnano il Colle Acquafredda, — 62 — nel suo fianco retrostante, è più ìipido in basso, ma dai m. 600 si addolcisce sensibilmente. Altro indizio ci è dato dallo sprone dietro S. Nicola, presso Let¬ tere, lungo più di mezzo chilometro, tra i 650 e i 670 m. Nella costiera amalfi¬ tana gli indizi mancano del tutto, in quanto l’azione demolitrice del mare è stata intensissima, nè la terrazza di Agerola, che si aggira sui 630 m., può essere in¬ vocata a testimoniare tale livello del mare pliocenico, in quanto, come dimostre¬ remo in seguito, rappresenta un fondo di valle di maturità avanzata Definiti gli spianamenti verso i 1000 m. nei M. Picentini, che il Galdieri attribuisce ad una penepianazione come livelli di ter¬ razze plioceniche, preglaciale, sulla genesi della triplice serie di terrazze si possono fare le seguenti osservazioni. Poiché si tratta di valli mature con il loro sbocco assai vicino al livello di base marino, non si comprende come le acque, anche se abbondanti, abbiano potuto esercitare un'intensa e rapida azione erosiva in profondità ; in periodo di magra avrebbero dovuto solo intensamente depositare, in periodo di piena la cresciuta energia della massa avrebbe dovuto accrescere l'azione di deposito, e questa, aumentata, si sarebbe spostata più verso valle, fino allo sfocio, ed anche oltre, con formazione di depositi litoranei deltizi. In ogni modo, in nessun caso si sarebbe potuta sostituire alla sedimenta- zione un’ azione di erosione in profondità. Perciò molto bene il Dainelli ( op . cit.) arguisce che il triplice terrazzamento della valle del Picentino si può solo spiegare con un sollevamento della re¬ gione, il quale abbia avuto tre stasi successive. Accettando la da¬ tazione del Galdieri, si può constatare che il sollevamento tra una stasi e T altra coincide con fasi interglaciali. Del resto, tale solle¬ vamento non è un fatto specifico che si possa invocare soltanto per dare una spiegazione del terrazzamento delle valli del Picentino, ma è notoriamente riconosciuto in tutta l'Italia meridionale, ed in ispecial modo nella Penisola Sorrentina e nella zona flegrea, che forma l'altra parte del Golfo di Napoli. De Lorenzo e Simotomai ne hanno fatto cenno a proposito del terrazzamento del Gauro, e non è possibile immaginare che in una limitata zona, quale quella compresa tra i Golfi di Napoli e di Salerno, un movimento ascen¬ sionale abbia solo interessato il Golfo di Napoli, e non abbia pro¬ dotto nessun effetto nel Golfo di Salerno. Nè solo a questi due golfi si limitò l'azione di tale movimento ascensionale, ma si estese a tutto il bacino del Mediterraneo , e i suoi numerosi effetti sono — 63 — palesi nell’Italia meridionale, come dimostrano le molte terrazze, che qua e là si rinvengono nel nostro Appennino. E' noto che nell'Appennino meridionale dopo l’emersione corrispondente al Piano Pontico, ebbe inizio un nuovo movimento d'immersione, per cui il mare pliocenico, dilagando sulle terre che prima erano emerse ed ora nuovamente sommerse, vi depositò i suoi materiali, quali conglomerati, ghiaie, sabbia, argilla, marne, a cui erano commisti lembi calcarei di origine organica ed i reliquati della fauna e della flora proprie di quel periodo. La fine del Pliocene segnò il limite del massimo abbassamento raggiunto dalla terra, corrispondente agli attuali 1300 m. di altezza, come dimostrano i depositi e le terrazze a tale quota sullo Aspromonte, presso Montalto, i depositi a 1000 m. presso Carbone e a 900 m. presso Avigliano in Lucania; a 600 m., come abbiamo precedentemente detto, nella fascia marittima del Salernitane, nei monti del Picentino e nella zona col¬ linare, che delimita l'agro romano. Dunque, il movimento di subsidenza non fu unico in tutta l'Italia meridionale, ma andò lentamente diminuendo man mano che dalla costa ionica e tirrenica della Calabria e della Lucania procediamo verso Nord. Dopo la massima immersione che le nostre terre subirono nel Pliocene, alla fine del periodo cominciò un movimento di emergenza. Di questo sono testimoni i sedimenti pleistocenici commisti a nuove specie faunistiche, che attualmente vivono nel Mediterraneo, e le forme terrazzate a 700 m. di altezza nell' Aspro¬ monte ed a 600 m. nel resto dell'Italia meridionale. Rientrano appunto nell'opera esercitata dal mare durante tale movimento di immersione e di emersione le forme pianeggianti e arrotondate che al di sopra del livello massimo delle terrazze del Picentino, il Galdieri interpreta come panepiano preglaciale, nè tale ineguaglianza di movimento deve destare meravi¬ glia se si pensa che in un periodo più prossimo a noi le variazioni di sposta¬ menti verticali sono stati rilevanti, come nel tratto compreso tra Capri, la Peni¬ sola, i monti del Picentino e i monti del Matese. E tanto più sono stati rilevanti se si pongono in rapporto le variazioni di poche decine di metri in questa zona di superficie limitata, con le variazioni di qualche centinaio di metri in zona di superficie più estesa, quale è quella che comprende l’intero Appennino meridionale. Comunque, delle variazioni di spostamenti verticali nell'area delimitata da Capri, dalla Penisola, dai Picentini e dal Matese nell'era quaternaria avremo modo di parlare più ampiamente in seguito, nello stabilire la correlazione tra le terrazze della Penisola e quelle delle località ora ricordate. Si possono consultare a tale proposito gli interessanti studi del D'Erasmo per la Puglia {Il mare plicenico nella Puglia, in Memorie geol. e geogr. , voi. IV, 1934), e del Minucci per la Campania {Il mare pliocenico nella Campania , in Memorie geol. e geogr. voi. Ili, 1933), intesi a stabilire la varia intensità dei sollevamenti postpliocenici in Italia, seguendo l’impulso dato a tali importanti ricerche nell'Istituto Geologico di Firenze, dalla mente illuminata a sagace di Giotto Dainelli. Nel Quaternario il mare è andato sempre più discendendo lungo le nostre coste, benché il movimento di emergenza sia stato spesso interrotto da pause — 64 — alternate con brevi periodi di subsidenza, quasi che la terra col suo gigantesco sospiro abbia dilatato e compresso il suo petto. Numerose sono le prove che si possono addurre di queste oscillazioni. Mentre fori di litodomi qua e là tappez¬ zanti le pareti precipiti nel mare, pozzetti verticali, erte incidono piattaforme terrazzate, emergenti appena di qualche metro dalla superficie liquida, insabbia¬ menti dell'ultimo tratto di corso di torrenti attestano che il movimento di emer¬ genza è tuttora in atto, d'altra parte documenti anteriori e coetanei dell'epoca storica dimostrano che spesse volte il palpito della terra ha abbassato, sia anche di pochi metri, il livello delle terre emerse al di sotto del bacio dell’onda. E’ universalmente conosciuto, per cui è quasi inutile citare, il classico esempio del Serapeo a Pozzuoli; ma non per questo si deve credere che il bradisismo positivo e negativo sia limitato soltanto a distretti vulcanici ; forse l'attività ignea del sottosuolo rende più evidente il fenomeno, in quanto le oscillazioni sono più intense e si svolgono in più breve periodo di tempo, come già potemmo con¬ statare qualche anno addietro in un nostro studio morfologico sulle coste della Sardegna settentrionale ( Osservazioni morfologiche sulle coste della Sardegna settentrionale : Porto Torres , in Boll. Soc. Nat. in Napoli, 1940), ma il fenomeno è ugualmente intenso in altre zone, in cui l’attività vulcanica o è pressocchè esaurita o non è mai esistita. Lungo tutto il Golfo di Napoli, da Capo Miseno a Castel dell'Ovo il Guenther ( Contributions to thè study of earth movements in thè Bay of Naples, Oxford, 1903) rilevò ruderi di antiche ville romane attual¬ mente sommerse; ma già precedentemente, ora è un secolo, il Niccolini ( Tavola metrica cronologica delle varie altezze tracciate dalla superficie del mare tra la costa di Amalfi ed il promoniorio di Gaeta nel corso di diciannove secoli , Napoli, 1839) aveva dato l’avviso, ponendo in rapporto il bradisismo che si verificava nella zonaflegrea con fatti analoghi avvenuti lungo tutta la costa della Penisola Sorrentina, e su tutto il litorale tirreno, fino al Promontorio di M. Orlando in Gaeta. Le sue affermazioni furono in pieno confermate dagli studi posteriori. L'Issel (Le oscil¬ lazioni lente*del suolo o bradisismi, in Atti R. Univ. di Genova, voi. V, 1883) osservò che le condizioni del Golfo di Napoli corrispondono presso a poco a quelle della regione Pontina, per cui questa, dopo l’epoca romana, è rimasta per molti secoli dominio delle acque vaganti e paludose, sede di acquitrino e di malaria. Nel tratto compreso fra Gaeta e Capo Miseno abbiamo anche noi osser¬ vato un analogo fenomeno (Il bradisismo di Conca , in Gli Abissi, I, 1938). Del resto per questo tratto una prova manifesta è data dall' interramento dell'antica città di Literno, che sorgeva a monte del Lago di Patria, recentemente tornata a luce per opera del Maiuri. Ma anche a sud del Golfo di Napoli il fenomeno è palese : basta ricordare la piana alluvionale di Paestum, di cui hanno discusso il De Lorenzo (Sulla causa geologica della scomparsa dell'antica città di Paestum in Rend. R. Acc. Lincei, CI. Se. Fis. S. VI, voi. XI, 1930) e il D'Erasmo (Il bradisismo di Paestum , in Rend. R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, S. IV, voi. IV, 1934), già sepolta per il periodo compreso fra l'Impero romano e il Medioevo, sotto una coltre di depositi fangosi e calcarei, che crearono l'acquitrino e la malaria, poi risollevatasi nell’epoca successiva, ed attualmente in nuova fase di subsidenza, per cui non pochi sono gli ostacoli che si incontrano nella bonifica di quel tratto del litorale campano. Venendo, poi, in particolare alla Penisola Sorrentina, numerosi sono i docu* — 65 — menti che attestano un movimento di subsidenza posteriore al sollevamento qua¬ ternario, a cui si devono i livelli di terrazze indicati nella Penisola e in Capri. Oltre le prove relative all’epoca storica, addotte dal Niccolini, possiamo ri- - cordare l'insabbiamento del fondo della stretta gola del Furore (fig. 12), dove le allu- Neg. Castaldi. Fig. 12. — Insabbiamento del fondo della stretta gola del Furore. vioni costituiscono una specie di piccolo delta proteso; tale insabbiamento, formato da materiale marino, si ritrova anche nelPinterno, oltre il ponte su cui passa la strada, tanto che il corso d’acqua non in piena vi descrive meandri. Mentre l’an¬ gustia della gola stessa, la sua profondità e la perpendicolarità delle pareti op¬ poste, provano l'intensità del movimento di ascesa, l' insabbiamento predetto è prova di una sommersione successiva al massimo approfondimento. Lo stesso si può osservare per il vallone di Praia e per il tratto terminale della valle di Tra¬ monti. Altre prove sono addotte dalla escavazione della bocca piccola di Capri e dalla nota Grotta d: Smeraldo, che si apre presso Amalfi. In questa si possono osser¬ vare stalagmiti e colonne stalattito-stalagmitiche immerse per lungo tratto (fig. 13). Da alcune misurazioni da noi eseguite nello scorso me-e di Giugno , è risultato che il livello dell'acqua marina, nei pressi della parete opposta all' ingresso, ai piedi di un troncone di stalagmite, è di m. 5,93, mentre vicino alla colonna — 66 — stalattito— stalagmitica, nella seconda stanza a sinistra dell'ingresso, di fronte al così detto Presepe, è di m. 2.60 ; vicino all’ ingresso sottomarino della grotta, a destra del gran salone, è di m. 9,34, mentre ai piedi della colonna sonora net gran salone, a destra dell'ingresso, è di m. 5,25. L' altezza del fondo dunque varia da un minimo di m. 2.60 nella seconda stanza, cioè in quella più interna, ad un massimo di m. 9,34 nella prima stanza, e propriamente vicino all'ingresso Ediz. Francese- Amalfi. Fig. 13. — Grotta di Smeraldo presso Amalfi - Stalagmiti sorgenti dal mare. sottomarino, che attraversa la parete esterna. Analoghe osservazioni, relative a dislivello di fondo, e quindi ad ineguaglianza di movimento discensionale da un tratto all'altro della medesima grotta, furono da noi eseguite nella Grotta di Conca, presso Gaeta, ove trovammo nella stanza interna colonne stalattito-stalagmitiche intatte, e nella stanza esterna colonne stalattito-stalagmitiche spezzate, con i labbri delle fratture distanziati l'uno dall'altro, tanto che sulle due superfici della frat¬ tura stessa si erano formate e si andavano formando nuove concrezioni stalattitiche e stalagmitiche. Per Conca, e per la Grotta di Smeraldo si possono trarre le medesime conclusioni : che, cioè, l'abbassamento del suolo è stato molto intenso - 67 — lungo la linea di costa, meno a pochi metri più nell’interno, per cui entrambe' le grotte hanno subito una specie di dilatazione valvolare con cerniera nel punto più interno. Possiamo dunque concludere questa digressione sui movimenti oscil¬ latori del nostro terreno, movimenti che nel caso specifico della Penisola Sorren¬ tina avremo in seguito ragione di ricordare, perchè ci spiegano tante apparenti anomalie circa il terrazzamento della costa e le sue forme, con le parole di un illustre geologo italiano del secolo scorso, il Pilla ( Trattato di Geologia , Voi. I, Pisa, 1847), che, con mente illuminata comprese che questi movimenti oscillatori non costituiscono la esclusiva caratteristica dei distretti vulcanici italiani, ma sv¬ estendone alla maggior parte del nostro Paese : " Le variazioni del livello del mare in Italia sono fenomeni estesi e non derivano già, secondo che alcuni hanno affermato, da cause locali, come da azioni vulcaniche, da depressioni di suolo, o da altre ragioni simili, però che oltre a quelle che si osservano in molti luoghi delle coste italiane, si veggono poi in ogni spezie di suolo, nei luoghi vulcanici (Pozzuoli), ne' terreni di alluvione (Ravenna), e nelle rocce solide e compatte (Rupe di Gaeta , Capo Argentaro) „. Le parole del Pilla, riferite anche dal De Lorenzo ( Geologia dell1 Italia meridionale, cit.) , trovano piena corrispondenza nelle intuizioni geniali del Maestro napoletano e negli studi eseguiti da suoi col- laboratori, quali il D'Erasmo, e da suoi discepoli. Dei tre livelli del Picentino, il più basso, cioè quello di 166 m.. ha minore importanza, perchè è solo di pochi metri superiore al¬ l’attuale fondo- valle. Gli altri due non corrispondono nelle minime quote, così come le indica il Galdieri, proprio allo sbocco sul livello di base, ma ad un punto un poco più a monte. Se trascu¬ riamo le piccole differenze di quota causate dal fatto che lo spo¬ stamento verticale ha avuto varia intensità per la distanza tra Capri e lo sbocco del Picentino, si può dedurre una corrispondenza fra gli altri due livelli indicati dal Galdieri e i due livelli superiori delle terrazze marine di Capri. Le corrispondenze sarebbero dunque le seguenti : Terrazze del Picentino Terrazze di Capri m. 270-290 m. 150 m. 320 m. 220 Innanzitutto da questo rapporto deriva che, stabilita la pos¬ sibile ipotesi che al livello della terrazza superiore del Picentino corrisponda la più alta terrazza marina di Capri (m. 270-290), nell'isola non si possono rinvenire terrazze corrispondenti al livello del mare pliocenico, perchè questa, come giustamente osserva il Dainelli, doveva essere allora non un'isola, ma soltanto uno scoglio subacqueo, anche se assai prossimo con le sue sommità allo spec- — 68 - chio del mare. Rimarrebbe allora da spiegare il significato di tracce di spianamento nella parte più elevata dell’isola (M. Solaro), che il Rovereto ha indicate verso i m. 585. Anche nella Penisola Sor¬ rentina, e in ispecial modo nel versante amalfitano, si trovano nu¬ merosi spianamenti, che non hanno nulla a che fare con terrazze marine, perchè non corrispondono a nessuno dei livelli indicati, nè è possibile considerarli come altri livelli, in quanto tutto in giro al loro orlo meridionale non mostrano segni di falese, che si po¬ trebbero spiegare come un rapido innalzamento della costa, ma la parete scende inclinata e dirupata, come per tutto il resto della costiera e come si verifica nei fianchi delle montagne a struttura dolomitica (figg. 14 e 15). Tale inclinazione dei fianchi non è data da sfasciume ma da roccia viva, spezzettata e sbrandellata dall' azione chimica delle acque, che corrodono il carbonato di calcio, lasciando inalterato il carbonato di magnesio. Inoltre, se questi spianamenti fossero terrazze si dovrebbero trovare a corrispondenti altezze, lungo tutta la direttrice della costa, altri segni di abrasione ed altri accenni a spianamenti. Per quei brevi tratti in cui la parete scende ripida, in congiunzione con l'orlo meridionale, spesse volte si rinvengono cumuli di detriti sul sottostante fianco inclinato, che denotano il franamento di un tratto della parete, intensamente minato e indebolito dall’azione delle acque. Alla nostra affermazione che questi lembi spianati non corrispondono a nessun limite di terrazze, si potrebbe obiettare che noi stessi abbiamo ammesso che non è possibile fare equiparazioni fra lembo e lembo, in quanto il movimento verticale che ha portato la terraferma dal profondo del mare alla luce dell'aria ha subito variazioni ; di queste prece¬ dentemente abbiamo dato qualche esempio, allorché abbiamo ri¬ cordato le differenti altezze raggiunte dal terrazzamento delle coste calabro-lucane e dal terrazzamento della costa campana. Altri esempi di tali variazioni abbiamo ancora addotti nello stabilire l’e¬ quiparazione tra il 2° e il 3° livello delle terrazze del Picentino e il 4° e il 5° livello delle terrazze di Capri, ammessi dal Rove¬ reto. E’ vero anche che le variazioni di spostamenti verticali sono più forti e irregolari nella Penisola Sorrentina, su distanze non grandi, ma d’altra parte è altrettanto vero che gli spianamenti pre¬ detti non offrono nessun elemento fisico , per cui possano essere giudicati terrazze, come più chiaramente vedremo negli esempi che ricorderemo tra poco-, e per di più, se le variazioni di spostamenti verticali fanno sì che lembi di terrazze di altezza differente l'uno 69 — Ediz. Fusco- Mostacciuolo. Amalfi . Fig. 14. — Spianamenti nella roccia dolomitica al di sopra di Amalfi. Neg. Castaldi. Fig. 15. — Spianamenti nella roccia dolomitica della catena dell' Avvocata. — 70 — dall'altro di qualche metro o decine di metri siano da attribuirsi al medesimo livello, tale attribuzione trova conforto nella constatazione che le variazioni crescono man mano che da W ci spingiamo verso E (da Capri alla Campanella ai Picentini) e dalla costa verso l'in¬ terno (da Capri e dalla Penisola ai Picentini e al Matese), ma gli spianamenti predetti sono tanto irregolari per la loro distribuzione altimetrica che non è assolutamente il caso d'invocare le irregola¬ rità e le variazioni di spostamenli verticali. La irregolarità e la intensità di spostamenti verticali, maggiori nella Penisola Sorrentina che in altri luoghi date le distanze non grandi, dipendono dalle con¬ dizioni tettoniche di questa : cioè dall' essere costituita da tante zolle limitate da fratture in due serie, come già abbiamo ricordato, fra loro perpendicolari; come queste zolle furono variamente sovraspinte o affondate al momento della frattura, così simili variazioni ancora una volta si possono essere verificate sotto la sol- citazione delle spinte verticali quaternarie. La terrazza di Agerola , che si di¬ stende uniformemente tra i 630 e i 640 ni. ed è rialzata al suo margine esterno (m. 646, 656 e 670) ne offre un esempio, mostra cioè che almeno uno dei solle¬ vamenti è stato più intenso a SE che a NW. Altro effetto si deve riconoscere nelle incisioni esercitate dal Furore e dal Praia sulla terrazza : infatti il primo l'ha incisa, mentre il secondo attualmente corre al piede del fianco montuoso, che li¬ mita la terrazza. Ma originariamente anch'esso doveva percorrerne la superficie e sboccare verso l'esterno in quella incisione in cui oggi è il Belvedere di S. Lazzaro. L' ineguale sollevamento può aver fatto retrocedere il corso del Praia, fino a localizzarlo al piede del fianco montuoso. Numerosi sono gli spianamenti che si osservano qua e là sulle dirupate montagne della costiera amalfitana. Uno molto interes¬ sante, alto 390 m., si può vedere dal ripiano di Ravello. Esso so¬ vrasta Capo d'Orso e segue immediatamente una duplice guglia dolomitica (M. Piano). Un altro, alto m. 184, sovrasta Amalfi. Se ci spostiamo alle spalle di questi spianamenti, come ad es. di quello di Amalfi, affacciandoci al Belvedere di Villa Cimbrone di Ravello, ci accorgiamo facilmente che essi son dovuti all’azione distruttrice e livellatrice delle acque selvagge, perchè alle spalle perdono la fisionomia di ripiano ed offrono la vista di un am¬ masso caotico di rocce, variamente intaccate in tutte le direzioni dal ruscellamento. Del resto, queste forme di ripiani non sono nuove nelle regioni a carattere carsico, nè la Penisola Sorrentina, compresa Capri, presenta una differente fisionomia, in quanto è — 71 prevalentemente costituita di calcare o di dolomia. In un nostro studio sul carsismo dell'Appennino napoletano ( Il fenomeno car¬ sico dell' Appennino napoletano , in Atti Soc. It. Prog. Se., Bolo¬ gna, 1939) definimmo la nostra regione di carattere carsico, e sta¬ bilimmo che per intensità di fenomeno occupa il terzo posto in Italia dopo Tlstria e la Puglia. Tali ripiani, infatti, si rinvengono numerosi anche in Puglia, e sono stati illustrati nella loro genesi dal Colamonico. Stabilita la natura di tali ripiani, possiamo considerare lo spia¬ namento con cui culmina il M. Solaro simile agli spianamenti della Penisola [Sorrentina, perchè non è possibile equipararlo a nessun livello di terrazza quaternaria, perchè si deve escludere eh’ esso rappresenti un livello di terrazza pliocenica, e perchè, dato lo stampo quaternario dell'isola di Capri, di cui fa cenno il Rovereto, siamo autorizzati a stabilire un’analogia tra i fenomeni fisici verificatisi nella Penisola e quelli verificatisi nell'isola vicina. Come è noto, l'isola di Capri è stata distaccata dalla Penisola Sorrentina in epoca posteriore a quella in cui il diastrofismo orogenetico incurvò i suoi strati. Che la forma cleli’isola fosse già nell'Eocene presso a poco quale è oggi, solo sommersa per poche decine di metri in modo da poter accogliere per quest'al¬ tezza i depositi del mare eocenico, come asserirono il Walther, I'Oppenheim e il Guenther, appare poco verosimile per il ritrovamento di grandi vertebrati al livello di terrazze di 150 m., per cui il Rovereto, nell'affermare che le forme dell’isola sono « di uno stampo posteriore ai tempi pliocenici », suppose che Capri allora fosse ancora unita all'attuale Penisola Sorrentina. Ciò appare in¬ dubbiamente fuori di ogni discussione, come pure è manifesto che gli strati che costituiscono la Penisola si prolungano nell'isola vicina ; a questo facilmente si addiviene se si pon mente all'identità di terreni ed alla saldatura dell' isola al continente, comunque interrotta in epoca posteriore alla sedimentazione eocenica. 11 medesimo diastrofismo, che sollevò dal mare la Penisola, sollevò anche Capri non già staccata dalla terra ferma, ma come parte terminale della Penisola stessa. Se l’enorme pila calcarea costituente la Penisola, quale oggi appare, limitata dalla Punta della Campanella, non potè seguire dolcemente il movimento cor¬ rugatore, ma si spezzò in numerosi grandi frammenti, lo stesso dovè verifi¬ carsi per l’estrema parte della Penisola, che è l'attuale Capri. Precedentemente, a proposito della tettonica della Penisola, abbiamo visto come tali frammenti siano delimitati da due serie di fratture fra loro quasi perpendicolari, fratture che in linea di messima accetta il Rovereto; perciò non si comprende perchè tale motivo tettonico debba escludersi per Capri, che è la naturale continuazione della Penisola stessa, come pensa lo stesso Rovereto, e fare intervenire per spie¬ gare la sua tettonica, fenomeni di carreggiamento. — 72 Possiamo ancora aggiungere che lo stesso diastrofismo terziario a cui Capri e la Penisola devono la loro origine, costruì l'Appennino meridionale. Per tale movimento orogenetico, come bene osserva il De Lorenzo ( Geologia dell Italia meridionale , cit.) nel versante adriatico le masse calcaree subirono un semplice sollevamento verticale, accompagnato da lievi costrizioni laterali, e da leggiere pressioni oblique, per cui gli strati si curvarono in vaste ondulazioni, interrotte talvolta da fratture, che diedero origine a notevoli spostamenti. « Nella catena appenninica tirrena, dalla Valle del Crati a quella del Liri, il sollevamento oro¬ genetico fu più grande, e le costrizioni furono più forti : quindi le grandi masse calcaree a giuresi, ammantate dal nummolitico, presentano una tettonica a dislo¬ cazioni più accentuate. » Per ciò le grandi cupole e gli ampi bacini .si possono ricostjuire soltanto idealmente, perchè non sono mai esistiti, perchè quelle enormi e rigide pile calcaree e dolomitiche, mentre si sollevavano e si curvavano sotto la pressione delle forze orogenetiche, non potevano continuare a piegarsi indefinitamente e ad accartocciarsi su se stesse, come i più sottili e più molli sedimenti del Trias medio, ma dovevano ben finire con l'infrangersi in grandi blocchi massicci, che scivolavano poi gli uni contro gli altri lungo le grandi facce di frattura, generalmente spostandosi con grandi scaglioni e gigantesche gradinate, e molto più raramente accavallandosi gli uni sugli altri con sovra- spinte e sottospinte, » La Penisola Sorrentina rientra nell' Appennino meridionale e pertanto la genesi dell'uno corrisponde a quella dell’altra. L’eccezione sarebbe da farsi, se si volesse accogliere in pieno l'ipotesi del Rovereto solo per Capri, e diciamo solo per Capri, in quanto i recenti studi eseguiti dal Behrmann (Die Faltenbogen des Appennins und ihre palaeogeograp hische Entwicklung , in Abh. Gesells. Wissens., Gòttingen, Math -phys. cl., III Folge, Heft 15. Berlin, 1936) escludono ogni ipotesi di copertura di carreggiamento per l'Appennino meridionale. Il diastrofismo terziario, nella sua prima fase, formò il bacino sedimentario di Napoli, ed incurvò gli strati calcarei in anticlinali e sinclinali ; ma quando sul finire del Pliocene incominciò la seconda fase, gli strati, eccessivamente co¬ stretti dalle forze tangenziali, si fratturarono e si spezzarono in blocchi distinti da linee di fratture, fra loro ortogonali, in modo da rendere la massa, per suc¬ cessivi rigetti dei singoli lembi, quasi un'enorme gradinata ; il "Flysch eocenico, soprastante sempre ai calcari, è stato poi dalla susseguente erosione portato via dalle parti più alte, conservandosi nelle parti abbassate, dove viene a battere contro le facce di scivolamento delle masse calcaree più sollevate,, (De Lorenzo, L'isola di Capri, in Rend. R. Acc. dei Lincei, S. V,, Voi. XVI, 1907). In breve come giustamente osserva il De Lorenzo, nell'isola di Capri è facile osservare due serie di fratture con rigetti, una diretta da sud-ovest a nord-est, e un'altra diretta da nord-ovest a sud-est, limitanti le due grandi masse calcaree ad oriente e ad occidente dell'isola. Ciascuna di queste, benché frammentata in altri bloc¬ chi, conserva l’inclinazione degli strati verso nord-ovest, come nella Penisola Sorrentina, a cui Capri è congiunta non solo geneticamente, ma anche morfolo¬ gicamente, in quanto l'estremo lembo delia Penisola, col profilo dei monti di S. Agata e di S. Costanzo, pare che fedelmente riproduca il profilo del Solaro. I lembi del Flysch, che non sono stati asportati dall'erosione, si trovano nei punti più bassi delle dislocazioni, come presso i Bagni di Tiberio, ed urtano contro le — 73 — facce di scivolamento delle zolle elevate, come sotto il Monte S. Michele e sotto, il Salto di Tiberio. Ancora un’altra osservazione si può opporre alla tesi del Rovereto. Il Bel¬ lini ( Osservazioni geormofologiche sull' isola di Capri, in Atti della Soc. di Se. Nat. e del Mus. Civ. di St. Nat. in Milano, voi. XLIX, 1910) ha constatato che il fondo del mare intorno all'isola è curvo, con la massima convessità verso i due punti opposti della vailetta, ove sono le due marine. Orbene, se l'avvalla- mento centrale di Capri corrispondesse alla sinclinale ideata dal Rovereto, la forma assunta dal mare intorno all’ isola sarebbe inspiegabile, mentre è spiega¬ bilissima se si accetta 1' ipotesi di quello sprofondamento, che tutte le osserva¬ zioni contribuiscono a far ammettere. Il Galdieri, nel datare le terrazze del Picentino, stabilì che quella più alta, cioè di m. 320, fosse emersa nell’epoca intergla¬ ciale postmindeliana Poiché noi abbiamo fatta una equiparazione fra le due serie di terrazze (m. 320 e m. 220) del Picentino e le due serie più alte di Capri (m. 270 - 290 e m. 150) e abbiamo cercato di dimostrare che le terrazze del Picentino son dovute ad un sollevamento della regione, facendo coincidere il sollevamento tra una stasi e l’altra con fasi interglaciali, possiamo dedurre che il sollevamento che portò alla superficie le terrazze di Capri cor¬ rispondenti all’altezza di 270-290 m. ed equiparate al livello del Pi¬ centino di 320 m., sia avvenuto nella fase interglaciale postminde¬ liana, mentre il sollevamento che portò alla superficie il livello di terrazze di Capri di 150 m., equiparato al livello del Picentino di 220 m., coincide con la fase interglaciale postrissiana. 11 Gal- dieri ammette che nell’epoca quaternaria, in cui nelle Alpi si formavano gli ultimi depositi interglaciali postgunziani, faceva an¬ cora sentire la sua influenza il fenomeno carsico, che aveva rag¬ giunto precedentemente un grande sviluppo, e di cui l'erosione ha poi messo a nudo qua e là, lungo i versanti delle valli, qual¬ che sotterraneo residuo. Anche nella Penisola Sorrentina, e spe¬ cialmente nel versante amalfitano, numerosi sono i residui di feno- nomeno carsico. Per formarsi in un certo qual modo un’idea del¬ la sua intensità, basta percorrere un breve tratto, come, ad es., quello compreso tra Amalfi e la gola del Furore, o il tratto più prossimo a Positano, dove si presentano nella roccia numerose ca¬ verne, anche ad altezze non considerevoli, fino a un livello di pochi metri sul mare, come, fra gli altri esempi, ci attesta la grotta di Sme¬ raldo, anteriormente alla sua immersione. Se il fenomeno carsico 7 — 74 — nella regione del Picentino faceva ancora sentire la sua influenza nell'età postgunziana, vuol dire che il suo ciclo fu molto intenso durante la glacializzazione gunziana, cioè durante il 1° periodo del Quaternario. Pertanto le manifestazioni del fenomeno che os¬ serviamo nella Penisola, non possono essere coeve a quelle dei Picentini, se le prime si rinvengono anche, e in maggiore fre¬ quenza, a pochi metri di altezza. Con questo non escludiamo che ad altezze superiori al livello postmindeliano non vi siano mani¬ festazioni di fenomeno carsico, ma non limitiamo l'intensità di tali -manifestazioni all’ età gunziana e postgunziana , se si verificò nell'interglaciale dell'età successiva (cioè nella fase postmindelia- na) l’emersione del livello di Capri che oscilla tra i 270 e i 290 m. Ciò sta a dimostrare che il ciclo idrografico, anche in epoca successiva all'età postgunziana , fu molto intenso nella Penisola, e la sua attività si svolse tanto con carattere sotterraneo (data la natura dei terreni che formano la Penisola) quanto superficiale. Ed infatti molti livelli di terrazze, che a prima vista si potrebbero giudicare marini, hanno invece carattere di terrazze vallive. Se ci affacciamo dal Belvedere di Villa Cimbrone e volgiamo lo sguar¬ do verso occidente, cioè verso la parete che costituisce il fianco orientale della valle del Dragone, scorgiamo un piccolo ripiano subito sotto il villaggio di Minuto, che è a 300 m. altezza, ri¬ piano che ha tutte le caratteristiche di una limitata terrazza ; altri lembi si scorgono qua e là sulla stessa parete, ad altitudini mag¬ giori, poco oltre la Chiesa di Minuto che è a 320 m., e ancora più a monte, risalendo la valle, ad altitudini variabili tra i 320 e i 350 m. Affacciandoci poi dall'alto della torre quadrangolare del¬ la Villa Rufolo, si para dinanzi al nostro sguardo un’altura di 644 m. (M. Brusara) denominata il Monte (fig. 16) : i suoi fianchi di¬ scendono ripidi fino all'altezza di 500 m., poi si raddolciscono lenta¬ mente fino ai m.400, oltre i quali la parete scende precipite per la netta incisione del torrente che scorre incassato. Tuttavia, al di sopra del taglio netto è possibile scorgere un sottilissimo lembo di ri¬ piano, che si raccorda con altri lembi pianeggianti, su cui sorgono le frazioni di Lacco e di S. Martino del Comune di Ravello (fig. 17) e con altri lembi della costa opposta a questa, su cui sorgono i cen¬ tri di Scala, S. Caterina e, più in alto, Campidoglio. La valle del Dragone è alquanto larga nel primo tratto, cioè in quello com¬ preso tra lo sprone di Ravello a sinistra, e il centro di Minuto a destra; poi si restringe sempre più, le pareti divengono ripide, - 75 - Neg. Castaldi. Fig. 16. — Il Monte (M. Brusara) e, in fondo, Piana del Monastero. Neg. Castaldi. Fig. 17. — La valle del Dragone (livello più alto), il Monte e il nucleo posteriore di Ravello (Lacco e S. Martino). — 76 — e procede incassata man mano che si inoltra fra Scala e Lacco, poi' diventa così stretta che l’osservatore dall'alto della predetta torre non sa più distinguere se volga a destra o a sinistra. Bisogna di scendere lungo la strada carrozzabile di Ravello, fin oltre il bivio di Scala, per accorgersi che la rotabile di Scala sorpassa tale valle su un ponte, e che quindi la valle s’incide tra il Monte e le pro¬ paggini sud-orientali di Serra Fontanelle. A prima vista l'osserva¬ tore, dall'alto della torre del Palazzo Rufolo e persino nel primo tratto della carrozzabile di Ravello, vede un sol ripiano costituito dai lembi terrazzati di Scala, da quelli di Lacco, alla parte oppo¬ sta, e, nel centro, dall'esile striscia che sovrasta il netto taglio nella parete meridionale de il Monte. L'altezza di questi lembi, . lievemente inclinati verso il fondo-valle , si aggira sui m. 375. Se raccordiamo i predetti lembi con le terrazzette al di sotto di 300 e 320 m., è possibile ricostruire un’unica vallata, che una volta si estendeva fra lo sprone di Ravello e l'opposta parete, sovraincisa dall'attuale corso del Dragone. Conferma di tale antica valle, in cui precedentemente scorreva ampio il corso d'acqua, è data da due osservazioni, che è possi¬ bile fare dal bivio della strada di Ravello con quella di Scala. In¬ fatti, seguendo con lo sguardo l'attuale corso del Dragone, rivolti a monte, dov’esso piega ad occidente, tra le due alture predette, osserviamo a destra e a sinistra due intaccature, che hanno il li¬ vello di base lievemente pianeggiante ad altezze corrispondenti tra i 375 e i 400 m , per cui è facile ricostruire la soglia dell’antico valico,, attraverso il quale un tempo il Dragone si apriva la strada, prima di sfociare nella valle predetta (fig. 18). Volgendoci invece, sempre dal bivio, verso mezzogiorno, all’altezza di 300 m. o poco meno, si osserva fra l'estremo limite di Ravello e la pendice opposta un analogo valico, ma più largo, attraverso cui il Dragone irrompeva nel mare (fig. 19). Evidentemente il livello del mare in quei tempi doveva raggiungere approssimativamente l’altezza del valico esterno, cioè doveva raggiungere un livello di poco inferiore a tale quota; di conseguenza il corso d’acqua scorreva nel fondo-valle che abbia¬ mo ricostruito, in un periodo anteriore al sollevamento che fece emergere dalla liquida superficie il limite di terrazze di Capri di. 270-290 m. Questa emersione e quelle successive disturbarono l'antico sistema idrografico, per cui il Dragone sovraincise la val¬ le precedente, formando il suo letto attuale e deviando il suo corso nei pressi dell'altura il Monte, rasentando, quanto più gli fu pos~ — 11 — Neg. Castaldi Fig. 18. — L’antica Valle del Dragone (livello più alto'. Ediz. Ci cale se- Rovello *Fig. 19. — Sbocco meridionale dell’antica Valle del Dragone (livello più alto). - 78 — sibile, le pendici dell’altura stessa, onde la parete scoscesa dell’al¬ tura e la forma di gola impervia e incassata, in fondo a cui ha costruito il suo letto attuale. Ma a guardar bene la valle, che testé abbiamo ricostruita, dal parapetto occidentale della vecchia piazza di Ravello in cui sorge la fontana Moresca, o, meglio, poco più a S di questa, lungo la via del Vescovato, si osserva che alcuni dei lembi terrazzati che precedentemente abbiamo descritti, cioè quelli sottostanti al cen¬ tro di Scala, un pò più a monte rispetto alla Chiesa, precipitano con uno scalino netto e ripido, alto approssimativamente una quarantina di metri, in una piana sottostante non molto ampia, che si spinge verso la parete precipite de il Monte, delimitata dalle falde terrazzate della costa di Scala e dell’altura posteriore di Ravello su cui sorge il vecchio nucleo abitato, ricoperta da lussureggiante vegetazione, su cui il Dragone ha sovrainciso l’at¬ tuale valle stretta ed incassata, alquanto tortuosa, a mo' di mean¬ dro. Questa piana rappresenta una seconda terrazza di livello in¬ feriore alla prima (fig. 20). Quando il Dragone scorreva largo e pigro nella valle supe¬ riore, aveva trasportato tutto il materiale tenero ed incoerente, che ammantava le alture delimitanti il suo bacino idrografico, nel fondo di questa, rendendola pianeggiante, sì che durante la piena dilagava ampiamente, rasentando le pareti delle due opposte alture. Il primo sollevamento, che fece emergere il livello delle ter¬ razze di Capri di 270-290 m., costrinse il Dragone a sovrainci dere la valle primitiva, creando la prima terrazza, e formando la nuova valle ad una quarantina di metri più in basso, più stretta ed incassata rispetto alla prima: di conseguenza, diminuita l'am¬ piezza del letto, le acque, scendendo in piena, ed avendo ormai terminata l’azione erosiva nel tratto superiore e di deposito in quello inferiore, conservavano intatta gran parte della loro ener¬ gia, per cui, battendo violentemente con i filoni marginali lungo le pareti della terrazza superiore, finirono con lo sbrandellarla e spezzettarla in tanti piccoli lembi isolati gli uni dagli altri, accen¬ tuando l'erosione marginale rispetto a quella di fondo, e creando pareti ripidi e scoscese ai fianchi a detrimento dell’orlo superiore delle terrazze stesse. Se si considera che il sollevamento post- mindeliano, che fece emergere le terrazze di Capri di 270-290 m.r. nella Penisola Sorrentina fece emergere i livelli (come in seguito dimostreremo) corrispondenti ai m. 230, 280 e 340, progressiva- — 79 — mente crescenti man mano che dalla P. della Campanella si procede verso oriente, cioè verso le radici dei monti attualmente delimitati dal solco di Cava, possiamo spiegarci la differenza di una quarantina di metri fra l'antico e il nuovo fondo-valle, per cui la scarsa pen¬ denza de! nuovo letto favorì maggiormente l'erosione laterale che quella in profondità. Neg. Castaldi. Fig. 20. — L'attuale valle incassata del Dragone sovraincisa nella seconda valle. Quando nella fase di emersione successiva, corrispondente al limite di terrazze di 150 m. di Capri ed al limite di terrazzedi 1 40— 150 della Penisola, che raggiunge i m. 230 nel suo margine orientale (nè deve meravigliare la coincidenza dei 230 m. del primo solle¬ vamento con i 230 del secondo, se si pon mente al fatto che i primi rappresentano il livello più basso dell’ emersione post-min- — 80 - deliana, i secondi il livello più alto delTemersione postrissiana, per cui gli uni interessarono la zona occidentale della Penisola, secondi la zona orientale, dati gli spostamenti verticali in aumento man mano che da ovest si procede verso est, cioè verso il solco di Cava) il Dragone fu nuovamente costretto a sopraincidere la valle, per il maggiore abbassamento del mare. Se si aggiunge a ciò la natura stessa del fondo-valle, composto di materiale tenero, precedentemente strappato ai monti, e la rapidità con cui avvenne il sollevamento, si comprende come la nuova incisione dovè eser¬ citarsi massimamente in profondità, creando l'attuale letto, stretto e incassato, con pareti ripide, in cui il torrente scorre tortuoso, e lasciando allo scoperto una seconda terrazza più bassa, risparmiata in gran parte dall’azione incisiva delle acque, esercitatasi in pro¬ fondità più che lateralmente. Un fatto analogo si verificò per il Praia, che, come già ab¬ biamo ricordato, a causa del sollevamento modificò il suo corso. Anche i lembi terrazzati che scorgiamo lungo la valle di Tra¬ monti, come vedremo fra poco, sono di origine valliva, e ci per¬ mettono di ricostruire l'antica valle del fiume. Nè questi sono gli unici elementi di terrazze vallive. Altri se ne rinvengono qua e là nella Penisola, ma il più bell'esempio, che riscuteremo tra breve, è dato dalla terrazza di Agerola. Se ci è permesso anti¬ cipare la conclusione, possiamo affermare che la caratteristica idro¬ grafica che osserviamo nella Penisola non è limitata alla Penisola stessa, in quanto si rinviene in tutta la Campania. Quivi i corsi d’acqua, che già erano giunti a una fase di maturità, per l'intenso sollevamento post-pliocenico iniziarono un nuovo ciclo di erosione, sovrapponendo forme giovani alle vecchie preesistenti (sicché inci¬ sero gole profonde nella salda roccia, come ad es. in generale quelle dell’Alto Titerno a Monte di Cerreto Sannita, e come quelle dietro Piedimonte d'Alife, ed, in particolare, tutti i valloni della Penisola, dal Furore al Praia, dal Dragone al Reginola e al Tramonti) ed esercitando la loro erosione in profondità, dove le rocce erano più tenere, in rapporto alla rapidità del sollevamento stesso. Così scava¬ rono le attuali valli isolando i massicci montuosi costituenti la collana esterna della Campania, e creando una spiccata anomalia tra orografia e idrografia. Così pure nella Penisola Sorrentina la¬ sciarono qua e là lembi terrazzati dell’ antico letto quando le rocce erano più dure, perchè l’erosione nel calcare e nella dolo¬ mia non procedette di pari passo con l'erosione delle rocce più — 81 — enere, che asportarono via, restituendole nuovamente al mare e creando quegli hiatus geologici, che rendono difficile l'interpre¬ tazione della serie costituente i terreni della Penisola. Il Dainelli {Guida dell1 escursione al Mat se, in Atti XI Congr. Geogr. It , Voi. IV, 1930) osserva che “ le valli sospese sul fianco del Matese sono divenute tali, perchè l'erosione nel calcar1 non è andata di, pari passo con quella nelle vicine rocce più tenere, anzi via via che queste eraro asportate, e si affossava la valle a loro spese nei tronchi di valli plioceniche incise nelle groppe superiori, sempre più si sviluppava il fenomeno carsico, e quei tronchi dive¬ nivano valli, oltre che sospese, idrograficamente morte ed a mor¬ fologia sempre più decisamente carsica Di valli sospese, nella Penisola Sorrentina, anche noi abbiamo rinvenuto bellissimi esempi sui fianchi dell'alta parete dolomitica che d limita ad occidente la catena dell’Avvocata e che raggiunge il mare con Capo d’Orso- Tali valli sono due : una più alta, alquanto più spostata verso sud, e l’altra più bassa e incisa a nord della prima , in corrispon¬ denza del ciglio della piana di Ravello. Anche noi abbiamo fatto cenno dello sviluppo del fenomeno carsico nella Penisola, in con¬ seguenza della mutata idrografia. Come esempio specifico, che in¬ teressa in particolare il corso del Dragone, si possono ricordare molte nicchie con concrezioni stalattito-stalammitiche e, di mag¬ giore rilievo, tre cavità sotterranee, che si aprono in prossimità di Ravello : due nella Valle del Dragone, e propriamente nelle pendici occidentali della valle stessa, di cui una più a N nei pressi di Scala, l’altra più a S presso lo sbocco della vaile in contrada detta Ci¬ vita. La Crza cavità si apre in contrada S. Cosmo nella parete diruta che delimita a sud-est Ravello, al di sotto della villa detta la Rondinaia, che fa parte di Villa Cimbrone. Tutte e tre le grotte, che si sprofondano per vasta superficie, mostrano numerose con¬ crezioni calcaree stalattito-stalagmitiche, ed hanno carattere attivo, in quanto sono attraversate da corsi di acqua sotterranei, specie la prima e la terza. L'acqua di quest'ultima è artificialmente incanala¬ ta per sopperire al fabbisogno della popolazione di S. Cosmo; al suo ingresso lo stillicidio è molto intenso. Discendendo per la comoda scala che dalla Piazza del Duomo di Ravello conduce a S. Cosmo, dopo il bivio per il villaggio di Torello, dove sorge un’antica torre di difesa riadattata ad abitazione civile, detta Porla Donica, si rasenta la rupe scoscesa su cui è posta la Villa Cimbrone. Questa rupe presenta numerosissime tracce di fenomeno carsico, esercitatosi un — 82 — tempo molto infensamente, in quanto è completamente tappezzata da carie e ampie foracchiature concoidi (fig. 21Ì. Le deduzioni che si possono trarre sono le seguenti : quando il Dragone scorreva nella prima ampia valle, il cui fondo era reso impermeabile dai terreni Ediz. Anderson . Fig. 21. — Carie e foracchiature concoidi nella parete delle rupe sottostante a Villa O’mbrone. molli ed incoerenti dell’età terziaria, strappati dall’alto dei monti delimitanti il suo bacino idrografico e portati dalla violenza delle acque nel fondo-valle, rasentava coi margini estremi del suo corso le pendici montane su cui oggi sono Ravello, Scala e le sue fra¬ zioni. Queste pendici, spoglie anch’esse del materiale incoerente, perchè convogliato dal rusceliamento delle acque selvagge nel fon¬ do-valle, mostravano a nudo il calcare, che, intaccato dall’azione — 83 - corrosiva delle acque stesse, facilitò la sostituzione della circola¬ zione idrica superficiale con quella sotterranea, onde le molte nic¬ chie e le due grotte di Scala e di contrada Civita : onde ancora le foracchiature concoidi nella parete sud-orientale della rupe di Ravello. Nè si deve credere che le acque filtranti nel sottosuolo attraverso le diaclasature del calcare formassero la falda carsica ad altitudine rispondente alle due grotte licordate, in quanto il tor¬ rente stesso contribuiva a dissolvere la roccia, aprendo in questa inghiottitoi, che smaltivano il troppo pieno e favorendo l'appro fondimento della falda idrica sotterranea. Così si formò la grotta di S. Cosmo molto più bassa rispetto alle due precedenti. Nè tali manifestazioni del fenomeno carsico sono le sole, essendo unica la natura della roccia per tutta l'estensione del bacino, tanto più che, quando in seguito all'emersione successiva tutta la circo lazione idrografica dell' intero bacino venne disturbata, il fenomeno carsico si accentuò rispetto al periodo precedente. Quindi, natural¬ mente, si ebbe, da un lato, una minore portata d'acqua, dall’altro, il corso stesso, costretto a una nuova sovraincisione, per il ringio¬ vanimento che seguì all'emergenza, erodendo il fondo-valle per approfondire il suo nuovo letto, finì con l'accrescere tali manife¬ stazioni, e quindi diminuì gradatamente di portata a scapito del¬ l’allargamento della nuova valle, che è più stretta rispetto alla prima. La nuova rapida emersione, facilitando l'erosione in pro¬ fondità, costrinse il fiume a scavare il suo letto profondo e incas¬ sato, in cui esso attualmente scorre striminzito d’acqua, perchè non riceve più il contributo di tutto il bacino, in quanto gran parte di questo defluisce nel ‘mare per vie sotterranee. Quanto si è detto in particolare per il fenomeno carsico, che interessa la valle del Dragone, si può generalizzare a tutte le altre valli torrentizie della Penisola, data l’unicità di terreni calcarei e dolomitici che ne costituiscono l' impalcatura. Come altro esempio, possiamo ancora ricordare una grande cavità concoide con con¬ crezioni stalattito-stalammitiche in pieno accrescimento, che si apre nella parete sinistra della Valle delle Ferriere, sotto Puntone. In conclusione affermiamo che è possibile stabilire una perfetta ana¬ logia fra il nostro sistema idrografico e quello osservato dal Dai- nelli nella zona del Matese, onde il carattere vallivo di molte ter¬ razze. Infatti, il movimento di emersione postpliocenico, disturbando il primitivo sistema, influì, sia anche indirettamente, sulla formazione della terrazza di Agerola, e fece sì che molti corsi d'acqua sovrain- 84 — ridessero il loro letto, lasciando come reliquie di valli morte nu- merosi lembi terrazzati ; per questo stesso sollevamento il Praia deviò il suo corso e l’azione incisiva del Dragone e del Regina, l’uno a destra, l'altro a sinistra del contrafforte di Ravello (che funziona da spartiacque fra i due corsi predetti, quale propaggine meridionale dell'altura il Monte, sbassata e spianata dall' intensa opera livellatrice delle acque selvagge a rno' di ripiano) rendendo scoscesi i due lati, occidentale e meridionale, diede la forma al ripiano stesso di un enorme maniero piantato sulla roccia, come appare dal basso di Villa Cimbrone, proteso verso il mare. Che originariamente la terrazza di Ravello non sia di origine marina, ma uno dei tanti ripiani creati dal dilavamento delle acque, è attestato, oltre che dagli elementi morfologici ricordati, quali i lembi terrazzati dell’antica valle dal Dragone, anche dal fatto che al di sotto della sua parete perpendicolare la costa si continua ora con dirupi, ora con ripiani, ora con fianchi inclinati nei due sproni sottostanti, resi tali dalle acque, che hanno interrotto la continuità della parete che dall'alto del contrafforte giungeva al mare. Lo docu menta infine la forma stessa del ripiano, rialzato a mezzogiorno., sbassato a nord, a mo' di insellatura e nuovamente rialzato più a nord, dove sono le frazioni di Lacco e di S. Martino, fino al punto in cui si salda all’altura de il Monte. Ed ora, superato il passo della Torre di Chiunzi, discendiamo per la rotabile lungo la valle di Tramonti fino al mare. Anche in questa troviamo piccoli lembi terrazzati, sicuri indizi del primitivo livello di base. Appena sporgente dal fianco sinistro, dopo che i due attuali tronchi vallivi si sono riuniti, vi è un piccolo pogge- rello, sul quale sono i ruderi del vecchio castello, a 240 m. d'al¬ tezza. In corrispondenza di Ponte Primario, quando la valle inco¬ mincia a restringersi, si nota uno spronetto spianato, a m. 300 sul fianco destro, ed uno simile, a 260, sul sinistro, poi per gli ultimi Km. la valle si presenta angusta e senza apparenti tracce del sqo vecchio livello. Ma già prima, in corrispondenza di Paterno S. Ar¬ cangelo, sulla sponda destra, e dei piccoli centri di Torina, Belviso e Pendolo, sulla sinistra, si notano lembi terrazzati a un' altezza oscillante fra i 260 e i 280 m., che idealmente si possono raccor¬ dare tra di loro, in modo da costruire l'antico fondo vallivo, com'era prima che il Tramonti incidesse il suo letto attuale. Ad occidente di Maiori, sull'estremo fianco dentro della valle, vi è un — 85 — piccolo spronetto a 220 m. che con la sua superficie superiore accenna ad un lembo terrazzato. Tutta la valle si compone di due rami principali: l'uno in un certo qual modo procede parallelamente alla strada; l'altro proviene da destra e procede anch'esso parallelamente alla rotabile che da Polvica conduce alle frazioni di Fontaniello, Pietre e Cesarano. A valle di Polvica i due rami si congiungono. Anteriormente alla congiunzione, nei due rami principali, la valle procede notevol¬ mente larga, poi si restringe sempre più nell'unico tratto man mano che ci avviciniamo al suo sbocco. Durante quest'ultimo tratto il Dainelli riconosce sui suoi fianchi, a partire dalla linea di fondo attuale, quattro elementi fisici che ne danno la caratteristica, e cioè: stretta incisione terminale ; pendio con dislivelli di circa m. 100 e relativamente ripido ; pendio con dislivelli di circa m. 100-125 con inclinazione dolce; fianchi superiori ripidi, che salgono fino alle creste, il terzo elemento corrisponderebbe ap¬ prossimativamente al fondo-valle, che aveva il suo livello di base alla stessa altezza del livello delle terrazze costiere di m. 150-230 della Penisola, e di m. 150 di Capri (m. 220 del Picentino). Il movimento ascensionale che tenne dietro a tale livello produsse l'affossamento della valle, che attualmente si presenta angusta e con pareti ripide. Il De Lorenzo, che, come abbiamo precedentemente detto, traccia 11 fonda- mentale motivo tettonico della Penisola Sorrentina, che ancora oggi è l'unico pienamente accettabile, perchè, con l'ammettere due serie perpendicolari di frat¬ ture multiple, offre la possibilità di spiegare molti fatti stratigrafici e morfolo¬ gici, diversamente ribelli a qualsiasi interpretazione (quale il dislivello dei due affioramenti di marne foraminifere ad elevazioni differentissime, cioè a 1300 m. nel fianco meridionale del S. Angelo e a 150 m. presso Positano, e a distanza orizzontale di circa Km. 2, senza che si possa rinvenire il minimo accenno ad una piega, che in tal caso dovrebbe essere marcatissima per giustificare, in tanto breve spazio orizzontale, una discesa altrettanto considerevele) solo- nella Geolo¬ gia dell' Italia meridionale acenna brevemente alla coincidenza fra fatture radiali e gole di valli. Tale coincidenza è, invece, pienamente asserita dal Bòse, se non per tutti i solchi trasversali, almeno per alcuni di questi, che noi crediamo in • vece incisi nella parete dolomitica della costiera amalfitana dalle acque correnti. Abbiamo detto nella costiera amalfitana, perchè in quella sorrentina i valloni torrentizi non sono numerosi, e, tranne qualche rara eccezione, sono scarsamente •sviluppati. Il contrario si verifica per la parte meridionale della Penisola. Fra questi ricordiamo, da Vietri alla Punta della Campanella, le principali gole in cui scorrono i torrenti dell 'Albore, che scende dal poggio su cui sorge l'omonimo pae- — 86 — setto, di S. Nicola , che scende dal Monte dell' Avvocata, di Tramonti , che sbocca a Maiori, della Regina, che sbocca a Minori, del Dragone, che sbocca ad Atrani, delle Ferriere, che sbocca ad Amalfi, del Furore, che scende quasi a picco dal¬ l'orlo dell'Altipiano di Agerola, di Praia, che scende dal Monte dei Tre Cavalli, dello Scalandrone , fra Vettica e Positano, dello Scaricatore , che scende dal Monte Vico Albano, oltre quelli secondari che non è il caso di elencare. Alcuni di questi corsi d'acqua a regime torrentizio hanno numerosi affluenti e una valle molto bene sviluppata. 11 più importante, per lunghezza, per numero di af¬ fluenti e per incisione dalla valle, è il torrente di Tramonti , a cui tengono dietro o per la caratteristica offerta della valle, spesso infossata, con pareti verticali, il Regina, il Dragone, il torrente delle Ferriere, il Furore, che forma uno dei più pittoreschi orridi d'Italia, ed il Praia. Di queste valli il Bòse cita esplicitamente quella di Tramonti, che definisce frattura trasversale ; fa cenno della frattura di Minori, che potrebbe coincidere con la valle del Regina ed infine ricorda « le fratture che sboccano a mare vicino Atrani e Furore » vale a dire le valli del Dragone e del Furore stesso. L'asserzione del Bòse non ci appare molto rispon¬ dente al vero : per convincersene basta osservare l'asse di direzione delle quattro valli ricordate, e subito ci si accorge che non hanno nulla a che fare con le fratture trasversali. Infatti questi torrenti in massima parte si diriggono da N verso S, e qualche volta, per la sezione del corso superiore, provengono da E o da W, lambendo le pendici di un gruppo montuoso. Le fratture trasversali, invece, hanno la direzione SE-NW, in quanto concor¬ rono verso il centro del bacino sedimentario, per cui il De Lorenzo le indica an¬ che col nome di fratture radiali, oltre che trasversali. Per accogliere l'opinione del Bòse bisognerebbe ammettere che le acque superficiali, confluendo in un solco già preesistente, perchè creato dalle predette fratture, ne avessero seguito l'an¬ damento. Ciò è assurdo ammettere, dato l’orientamento dei solchi, differente da quello delle fratture; nè possiamo prescindere assolutamente dall'azione incisiva delle acque, specie se consideriamo che alcuni di questi valloni sono attraversati da veri e propri torrenti, che, hanno una considerevole portata durante il periodo delle piogge, e che insieme ai loro affluenti formano tutta una rete idrografica. Fer ogni corso è sempre possibile distinguere la sezione superiore da quella inferiore, la foce, che spesso è caratterizzata da formazioni deltizie, i corsi secondari, che affluiscono nel principale, il bacino idrografico, che funziona da bacino di rac¬ colta, e la linea di spartiacque. Se oggi la maggior parte di questi torrenti si versa nel mare, povera d'acqua nè la portata, anche in periodo di piena, corrisponde all'imponenza della valle, non dobbiamo meravigliarcene, perchè, come già ab¬ biamo in precedenza notato, i vari momenti del sollevamento quaternario, a cui dobbiamo la struttura deila Penisola come oggi si presenta ai nostri occhi, hanno disturbato volta per volta tutto il sistema idrografico, per cui questi torrenti, per il ringiovanimento della regione, da un lato hanno ripresa l'intensa azione erosiva, sovraincidendo l’antica valle, che non più si raccordava per la pendenza col mutato livello dal mare; dall'altro, man maro che l’affossamento del letto proseguiva più o meno intensamente e rapidamente, in proporzione diretta alla rapidità e all'intensità con cui l'emergenza si andava verificando, diminuivano di portata, in quanto alla circolazione idrica superficiale si andava sostituendo quella sotterranea. Diversamente tutto questo non si sarebbe verificato. Consideriamo, ad es., il corso del Dragone, di cui abbiamo più volte ed a lungo parlato, e — 87 - risaliamo a ritroso la valle. Giunti al bivio della carrozzabile che, proveniente da Atrani, volge a destra per Ravello e a sinistra per Scala, dinanzi ai nostri occhi si presenta il Monte. La valle del Dragone piega quindi a sinistra, cioè ne lambisce le pendici occidentali, e, attraverso la Piana del Monastero, attinge le sue acqne da; Monti Lieto e Cerreto, E' quindi possibile segnare nettamente il suo bacino idrografico. La linea di spartiacque dal mare attraversa il contrafforte di Ravello, tocca la sommità de il Monte, passa per le alture di Pozzillo, di Colle S. Pie¬ tro, di M. Lieto, poi piega ad W, toccando la cima di M. Cerreto, e ridiscende verso il mare per M Mégano, Serra Fontanelle e la dorsale montuosa, sui cui fianchi orientali sono i centri di Scala e delle sue frazioni. L'asse di direzione del corso per la sezione superiore segue la direttrice NNE - SSE ; per il tratto inferiore la direttrice NS ; la frattura radiale invece, così come la segna il De Lorenzo, attraversa la Penisola nettamente da SE a NW, e cioè da Torre Sali- cerehia ad E di Maiori, nella costiera amalfitana, fino a Castellammare nella co¬ stiera opposta. Tale frattura, passando per il ripiano di Ravello, divide in due parti il centro, in quanto lascia a S Ravello vera e propria, a N Lacco e S. Martino ; quindi raggiunge Scala che divide in due. attraversando il corso del Dragone quasi perpendicolarmente a questo, appena che esso, sboccato dalla stretta intaccatura che lambisce le pendici de il Monte, inizia il suo corso tor¬ tuoso fra i lembi terrazzati che precedentemente abbiamo descritti. Peggio an¬ cora è per la valle di Tramonti, in quanto la frattura radiale non la tocca nep¬ pure, perchè segna nel suo primo tratto la corda dell’arco descritto dalla costa fra Torre Salicerchia e Torre Mezzacapo, rispettivamente ad E e ad W di Ma¬ iori. Analogo ragionamento potremmo ripetere per gli altri due valloni indicati dal Bòse come solchi di fratture trasversali. Rimane da trattare l’origine della terrazza di Agerola. La sua posizione topografica e la sua altitudine c' indurrebbero senz'altro a definirla una terrazza marina formata dal mare pliocenico. Tut¬ tavia si oppongono varie constatazioni : 1) Se Agerola rappresentasse una terrazza marina, si do¬ vrebbe dedurre che in corrispondenza di questa i periodi di stasi, durante il sollevamento, non abbiano inciso nessun'altra terrazza. Infatti alla stessa altitudine in cui si trova il ripiano di Agerola, per tutta la lunghezza della Penisola Sorrentina, non si rinvengono altre tracce che denotino opera di abrasione marina, nemmeno in prossimità di questo, dove tanto il ciglio superiore, che divide la falcatura di Conca da quella di Amalfi, e il ciglio della catena del¬ l’Avvocata ad oriente, quanto il ciglio del costone occidentale su i cui fianchi s' inerpica Vettica, non mostrano segni di terrazza¬ mento. Qualche lieve forma di arrotondamento e di spianamento ha netto carattere carsico. 88 2) Perchè la terrazza di Agerola fosse stata rispettata dalla: demolizione operata dal mare durante tutto il periodo intercorso dalla sua emersione ad oggi, bisognerebbe ammettere che in tutto questo lasso di tempo la costa non fosse affatto retrocessa. Secondo la teoria del De Lorenzo, seguita dal Bòsf, l'aspetto accidentato della costa della riviera amalfitana, che differisce morfologicamente da quella sorrentina, in quanto quest'ultima presenta forme non così aspre ma più dolci e arrotondate, è dovuto, oltre che alla natura dei terreni del versante, in prevalenza dolomitici, anche al duplice sistema di fratture, longitudinali e trasversali, inter- secantisi tra di loro proprio in questa riviera. Infatti una frattura longitudinale, partendo approssimativamente a S di Salerno raggiungerebbe al largo Capo d’Orso, creando il grande arco compreso tra le due predette località ; una se¬ conda da Torre Salicerchia a Capo Conca e fino al largo di Capo Sottile costi¬ tuirebbe la corda dei due archi rispettivamente compresi fra Torre Salicerchia e Capo Conca, e Capo Conca e Capo Sottile ; una terza, partendo ad E di Posi- tano e raggiungendo la Secca del Cavallo, avrebbe influito sul modellamento di quest'ultimo tratto di costa. Così pure le due falcature, l'una tra Torre Sali¬ cerchia e Minori, l’altra tra Capo Sottile e Positano rappresenterebbero gli ar¬ chi, le cui corde sarebbero date dal primo tratto delle fratture trasversali. Certo quest'ipotesi tettonica è la più convincente, ma non si può invocare come unica possibilità atta a spiegare tutte le forme morfologiche, che attualmente assume la costa. Se nell’enumerazione di terrazze di indiscutibile origine marina, quali sono quelle di livello più basso, gli unici indizi sicuri si rinvengono nella co¬ stiera sorrentina, e quasi nessuno in quella amalfitana (fatta eccezione per il li¬ vello di pochi metri sull'attuale superficie del mare) non possiamo invocare come ragione del mancato terrazzamento del versante meridionale il motivo tettonico ideato dal De Lorenzo, in quanto questa duplice serie di fratture si è verificata in un periodo anteriore al terrazzamento della costa dovuto a sollevamenti qua¬ ternari. Bisogna quindi trovare un'altra ragione, e di questa fa cenno il Dainel i,. cioè la retrocessione della linea di costa. A partire dal Pliocene, via via che si verificava il movimento di ascesa, interrotto dalle stasi, alle quali è dovuto il ter¬ razzamento, il mare esercitava un processo di retrocessione della costa, eroden¬ dola e demolendola. Le valli mature o vecchie nella parte orientale dell'isola di Capri fanno pensare a una sua maggiore estensione, per cui il suo distacco dalla Penisola dovè verificarsi in un'epoca posteriore a quella in cui agì il ciclo mo¬ dellatore delle predette valli. Ritornando al versante amalfitano della Penisola Sorrentina, è naturale supporre che il suo asprissimo fianco non rappresenti per tutta la sua altezza quella che una volta è stata la linea di costa. Durante il sollevamento il mare erodeva demolendola ; quando si verificava una stasi, la demolizione era più intensa al livello della corrispondente linea di riva e si for¬ mava una terrazza, ma, allorché l'emersione della terra continuava, il processo- demolitore di retrocessione finiva col distruggere anche quella. 89 - 3) Il ripiano di Agerola è limitato tutt’intorno dal rilievo di¬ sposto ad anfiteatro con i fianchi degradanti verso di questa, su cui sono incisi dalle acque numerosi solchi e valloni (figg. 22 e 23). Neg. Castaldi . Fig. 22. — Terrazza di Agerola, di forma concava. Questi sono ancora più numerosi e profondi, dove la terrazza si raccorda con la elevazione del S. Angelo (fig. 24), che è la mag¬ giore della Penisola, intorno a cui si rinvengono numerose forme giovanili, cioè aspre, che si possono considerare un’eccezione nelle parti più elevate dei monti sorrentini (fig. 25). Dobbiamo, dunque, ammettere che in questa zona di Agerola di massimo sol-, levamento rientri anche il ~Sf Angelo, e che i solchi torrentizi incisi sui suoi fianchi (fig. 26) caratterizzino V imponenza di un ciclo idrografico disturbato successivamente dall' emergenza po- 9 — 90 — Neg Castaldi . Fig. 23. — Solco torrentizio che attraversa la terrazza di Aserola. Neg. Castaldi. Fig. 24. — Solco torrentizio inciso sui fianchi del S. Angelo, immettente nella terrazza di Agerola. — 91 — steriore. A tale intensità del ciclo idrografico quaternario, modi¬ ficato o diminuito d'intensità o, qualche volta, persino del tutto estinto, si devono gli arrotondamenti delle cime, specialmente nell’ultimo tratto della Penisola Sorrentina. Le superfici dolce¬ mente ondulate e le elevazioni arrotondate e a carattere ma¬ turo farebbero pensare ad un’azione livellatrice di un ciclo idro- Neg. Castaldi m Fig. 25. — Forme giovanili del S. Angelo. grafico anteriore al Quaternario, che abbia dato carattere di maturità alle alture stesse, se le loro altezze aggirantisi sui 400 m. e spesso al di sotto di questi non facessero escludere tale ipotesi. Così pure, se ci soffermiamo sul margine meridionale della piana di Vico Equense, e guardiamo verso il margine settentrionale, scor- - 92 — giamo che questo è costituito da una terrazza, che termina alla quota di m. 345. E' da escludersi che sia una terrazza costiera, in quanto non possiamo equipararla a nessuno dai livelli riconosciuti e tanto meno a quello pliocenico che si aggira sui 600 m. Si tratta- anche qui di una terrazza valliva, che si rialza dolcemente fino ai 500 m., dove sorge il villaggio di Casola, ed è compresa in una Neg. Castaldi .. Fig. 26. — Un vallone sui fianchi del S. Angelo. valle attuale, delimitata dalle alture interposte tra il Faito, il Ce- rasuolo, il S. Angelo e il M. Comune ; la terrazza è ubicata sul fianco destro di questa valle, ma un suo lembo ricompare sul fianco sinistro, mostrando la testata a 660 in. fra M. S. Angelo e M. Comune. Anche la piana di Sorrento mostra nel suo margine settentrionale analoghi lembi di terrazze vallive, che per significato e per età si raccordano alla precedente di Vico. Tutto ciò sta a testimoniare l’intensità del ciclo idrografico in questione, sempre svoltosi nell'era quaternaria, che, oltre a formare terrazze vallive, anteriormente alla sua sostituzione con la circolazione sotterranea,, 93 - ha eroso, spianato ed inciso valli più o meno incassate o di tipico -carattere torrentizio a V, che hanno contribuito, oltre la duplice se¬ rie di fratture del De Lorenzo, a spezzettare l’unità orografica della Penisola, rendendone più difficile l’interpretazione. E tracce di questa frantumazione in tanti blocchi distinti, quasi sistemi oro¬ grafici distaccati gli uni dagli altri, offre non solo il versante amalfitano, ma anche quello sorrentino, come si può osservare con sguardo panoramico nelle belle giornate invernali o primaverili, in cui l'aria è più diafana e trasparente, mentre gli ultimi raggi di sole cadente illuminano il fantastico panorama, dall’ alto dello Osservatorio vesuviano o, meglio ancora, più vicino, dalla via che conduce alla Pineta Leopardi. A questo intenso ciclo idrografico dobbiamo lo spianamento della terrazza valliva di Agerola. Altra prova della sua origine si ricava dal fatto che al limite estremo di Bomerano, il suo margine occidentale si raccorda con il fianco del Monte Tre Cavalli, senza ■che vi sia una netta separazione tra il ripiano e la montagna stessa; la medesima osservazione si può fare per l'orlo meridionale del tratto di alture compreso tra la sella di Bomerano e la sella di S. Laz¬ zaro (fig, 27). In tal modo risulta che la terrazza di Agerola è rialzata tutt'intorno ai margini, ed infossata verso il centro, anche rispetto all'orlo meridionale compreso tra le due insellature predette. Se la terrazza fosse di origine marina, non dovrebbe essere limitata verso S, cioè verso il mare, da un orlo collinare più alto del ri¬ piano, disposto a modo di barriera , altrimenti non sapremmo spiegarci come il mare sarebbe riuscito a spianarla. Nè potremmo renderci conto dell'inclinazione, specie verso il mare, con cui la terrazza si raccorda all'orlo meridionale. Questo è interrogo da due insellature, alle estremità dei borghi di S. Lazzaro e di Bomerano, le quali, per la caratteristica forma di V, denotano l'azione incisiva delle acque, che, nel periodo in cui la valle era attiva, defluivano verso il mare. Da tutte le osservazioni predette, possiamo trarre -elementi per concludere che la terrazza di Agerola, con il suo dolce paesaggio affacciatesi, quale meraviglioso balcone, sulla ri¬ viera amalfitana di forme aspre e accidentate, rappresenti un fondo valle di avanzata maturità formatosi durante lo svolgimento di un ciclo idrografico, che aveva per base il primo livello di terrazze di m. 270-290 di Capri, e di m. 230-280 e 340 della Penisola Sor¬ rentina. La maggiore elevazione di un suo lembo denota la ine- .guaglianza d'intensità del movimento ascensionale; per raccordare — 94 — con essa i m. 340 che rappresentano la maggiore altezza delle- terrazze di questo livello, bisognerebbe pensare che il mare fosse stato distante dalla costa, nel Golfo di Salerno, molti chilometri ► altrimenti la pendenza della valle di Agerola sarebbe in piena discor¬ danza con quella delle altre due valli ricordate, e cioè del Dra¬ gone e di Tramonti. k £ . Neg. Castaldi. Fig. 27. — Orlo meridionale rialzato della terrazza di Agerola e intaccatura di Bomerano. Ma se consultiamo una carta batimetrica ci accorgiamo subito che tale distanza è inammissibile in quanto le profondità attuali del mare fanno escludere tale ipotesi. Bisogna dunque arguire che il movimento ascensionale sia stato più intenso ad Agerola e che, quindi, lanea di costa sia stata più vicina. Delle varie altezze della nostra terrazza la maggiore è quella del suo margine esterno, che raggiunge i m. 646, 656 e 670, rispetto all'elevazione media che si aggira fra i 630 e i 64U ; dunque il movimento ascensionale che, come più volte abbiamo detto, è andato crescendo gradatamente da W a E, non ha data una spinta uniforme a tutta la terrazza*, ma questa è stata più sensibile a S che a N. - 95 — Possiamo dunque concludere che il movimento di emergenza nella sua crescente intensità abbia agito segueno due assi di di¬ rezione, uno da W ad E, l'altro da N a S : al punto di interseca¬ zione di questi due assi è ubicata la terrazza di Agerola. Sul secondo asse si trova, oltre Agerola, anche il S. Angelo (fig- 28); in tal modo possiamo spiegarci il suo aspetto morfologico giovanile, in confronto alla morfologia dei luoghi circumvicini di carattere nettamente maturo. Ed ora passiamo a considerare brevemente i lembi terrazzati che si rinvengono nel solco di Cava. Ediz. Cuo mo- Agerola. Fig. 28. — Il S. Angelo e la terrazza di Agerola. Si indica col n >me di Solco di Cava la stretta doccia valliva compresa tra Nocera e Vietri. Il Walther erroneamente aveva designata tale depressione come una sinclinale, malgrado essa scorra perpendicolarmente alla direzione de¬ gli strati. Il Bòse obietta ehe l'errore del Walther « si lascia spiegare solo pen¬ sando che egli non avesse un'idea chiara del concetto di anticli nali e sinclinali tettoniche, il che è anche dimostrati' da ciò, che, nello stesso punto, egli parla della schiena anticlinale, spaccata mediante la valle di Tramonti e persino, al¬ cune pagine dopo, di antiklinanen Stujen ». Il De Lorenzo (Geologia dell’Ita¬ lia meridionale, cit.), si esprime brevemente con le seguenti parole: « Le fratture longitudinali formano le valli di Cava, Maiori, Agerola e Sorrento, e limitano - 96 - i grandi blocchi calcarei massicci ». Altrove ( Studi di Geologia nell’ Appennino meridionale , cit,) parla di fratture periferiche e tratture radiali : alle prime, cioè a quelle periferiche, dobbiamo la formazione della costa meridionale della Pe¬ nisola ; al contrario la costa settentrionale non si è formata per fratture perife¬ riche, ma invece è data dalle superfici degli strati inclinati verso NW, tagliate da fratture radiali. Dunque, a| pare chiara la identità di espressione : fratture periferiche = longitudinali, fratture radiali (perchè convergono verso il bacino, sedimentario del Golfo di Napoli) = trasversali. A parte il fatto che dalla citazione da noi riportata dalla Geologia del¬ l'Italia meridionale non si comprende come mai le valli di Cava, Maiori, Age- rola e Sorrento siano formate da fratture longitudinali, cioè periferiche, e non trasversali, cioè radiali, resta il fatto che la valle di Maiori, ci )è la valle di tra¬ monti, non è determinata, come già abbiamo detto precedentemente, da una frat¬ tura trasversale, ma dal corso d'acqua, che sfocia presso quella cittadina. Così pure la valle di Agerola rappresenta una superficie spianata dalle acque, cioè è una. terrazza valliva, e non determinata da frattura, nè è chiaro il significato dell'espressione valle di Sorrento, quando la omonima piana risulta determinata nel suo orlo meridionale da una terrazza marina, che si raccorda nella parte settentrionale più interna ad un lembo vallivo identico a quello osservato e de¬ scritto per Vico. Resta infine chiara l'espressione di valle di Cava, determinata da frattura trasversale, benché questa sia omessa nel disegno, con cui il De Lorenzo ha schematizzato la sua tesi. Cenni più significativi, relativi al solco di Cava, si trovano nello studio del Bòse. Egli infatti osserva che nei monti ad occidente di Vietri e di Cava dei Tirreni, gli strati sono quasi sempre diretti da W ad E (in media N 120 -130’ W) e inclinano (20 '-50°) a NW ; la parte orientale dei monti è invece molto più complicata. Vicino ad Alessia, al Monte S. Liberatore, il Hau - pdtodolomit è diretto da W ad E, ed inclina di 50° a S ; in altro punto è diretto N. 130° W, con inclinazione di 45° a S; i calcari della cima inclinano diretta- mente a SW. Inoltre al Monte Castello di Cava il Haupdtdolomit corre chiara¬ mente da N a S in strati del tutto verticali; esistono in questo monte anche del¬ le piccole pieghe, in modo che in un altro punto si può osservare la direzione NS e la pendenza di 3C° ad E. Tutto ciò dimostra chiaramente che la vallata di Cava deve le sua origine ad una grande faglia trasversale. Poiché queste frat¬ ture si determinarono anteriormente alla immersione pliocenica, il mare, prima delle recenti e successive emersioni quaternarie, aveva invaso il solco scavato dalla frattura di Cava, ptr cui la Penisola appariva distaccata dal resto del con¬ tinente, a forma di i -ola allungata. I lembi sono due: uno molto incerto presso la Masseria di S. Pantaleone, a S di Nocera, a m. 224, che si potrebbe equipa¬ rare alla serie di terrazze caprensi di 150 m., corrispondenti alla serie della Penisola di 140-150-230 m.; l'altro, che costituisce il ripiano di m. 40u, su cui sorge il villaggio Corpo di Cava, per noi ha maggiore interesse, non solo in quanto lo spianamento ha\ carattere deciso, ma più ancora in quanto esso appare formato — 97 — •superficialmente di brecce marine e di brecce di pendio. Il Galdieri osserva che molti fra i " poggi „ sui quali stanno i villaggi intorno a Cava " non sono altro che terrazze ricoperte, al di sotto del fer¬ tile lehm, dal solito conglomerato ,,, cioè da quello dei vecchi li¬ velli vallivi del Picentino, " che era stato pure osservato ma inter¬ pretato come breccia di pendio „. Alla osservazione del Galdieri il Dainelli risponde in modo decisivo*. “ Non so quali siano questi villaggi su poggi nei dintorni di Cava. La maggior parte, infatti, stanno sul fondo della doccia valliva, ad elevazioni minori di quella rappresentata dal precedente livello (150-230 m.) o di poco supe¬ riori: i conglomerati, se non sono marini ma subae*ei, dovrebbero spettare al livello ancora precedente, quando quella doccia valliva era già emersa,,. Si può dunque concludere che il netto ripiano a 400 m. su cui sorge Corpo di Cava, delimitato anteriormente da un salto, nel fondo di una valletta laterale, non sia altro che una terrazza marina raccordabile con il livello più alto della Penisola Sorrentina (230-280-340 m.) che abbiamo equiparato con i due maggiori livelli di Capri (270-290 m.) e del Picentino (320 m.) Dal complesso delle osservazioni sui lembi terrazzati, che ci è stato possibile esaminare su i tre lati della Penisola Sorrentina ^settentrionale, meridionale, orientale) possiamo dedurre le seguenti conclusioni : 1° non tutti i lembi terrazzati sono dovuti allo spianamento esercitato dal mare, ma alcuni sono marini, altri sono di carattere vallivo ; 2° tanto i primi quanto i secondi, direttamente o indiretta¬ mente, devono la loro origine al movimento di emersione quater¬ nario, interrotto più volte da stasi ; 3° le diverse altezze in cui si trovano i lembi, che si pos¬ sono riferire ad uno stesso livello, sono dovute all' ineguaglianza del movimento ascensionale, spesso interrotto, oltre che da stasi, da periodi di immersione ; 4° T intensità di sollevamento è stata maggiore man mano che da W ci spostiamo verso E. Tuttavia il momento culmi¬ nante dell'intensità del secondo e del terzo periodo non si rin¬ viene nei Picentini, ma nelle radici orientali della Penisola, in -quanto se è vero che alle serie di terrazze di 150 m. di Capri corrisponde la serie di 220 del Picentino, e alla serie di 270-290 di Capri corrisponde la serie di 320 del Picentino, è altrettanto - 98 - vero che alla prima delle due corrisponde la serie di 140, 150,230 m. della Penisola, e alla seconda la serie di 230, 280, 340 m. della Penisola. La coincidenza di 230 m. che conclude la prima e inizia la seconda è data dal fatto che la stessa altezza nella pri¬ ma si rinviene nei lembi più spostati ad oriente, nella seconda nei lembi più spostati ad occidente, cioè i 230 m. chiudono una serie e iniziano l'altra. I lembi terrazzati del solco di Cava ne sono chiari indizi, con i 224 m. della masseria di S. Pantaleone a S di Nocera, e i 400 m. del poggio su cui sporge il villaggio Corpo di Cava ; 5° l'intensità di sollevamento si è accresciuta non solo se¬ guendo la direttrice W-E, ma seguendo anche l'altra N-S : il punto di coincidenza delle due direttrici ha segnato il punto culminante del sollevamento stesso, come denotano la terrazza di Agerola e l'altura a morfologia giovanile del S. Angelo a Tre Pizzi; 6° la mancanza di terrazzamento nella costa meridionale della Penisola è dovuta alla retrocessione della costa stessa, che, asso¬ ciata all'azione esercitata dalla serie di fratture longitudinali, ha determinata la rude asperità di tale versante. Nella seguente tabella (v. Tabella) raccogliamo i vari lembi terrazzati, che si rinvengono nella Penisola, raggruppandoli secondo la loro appartenenza, oltre che ai tre livelli predetti, a un quarto livello, che è il più basso, emergente di qualche metro o di pochi metri dal livello del mare. Aggiungiamo ancora in tale classifica¬ zione la natura dei lembi stessi, determinando se siano terrazze marine o residui di un primitivo fondo-valle. Ma non basta per determinare l'intensità del movimento di emergenza della terra, il suo procedere per stasi, ed il suo alter¬ narsi con un periodo di abbassamento della terra emersa, stabilire l'equiparazione fra i lembi terrazzati della Penisola Sorrentina e quelli di Capri e dell’alta valle del Picentino : bisogna volgere lo sguardo anche alla rimanente parte del Golfo di Napoli e princi¬ palmente ai Campi Flegrei (includendo in questi anche le isole di Ischia e di Procida) e più oltre ancora al gruppo del Matese, che si eleva gigantesco fra la Provincia di Napoli e il Molise. De Lorenzo e Simotomai (/ Crateri del Monte Gauro nei CampiFlegrei in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, voi. XVI, S. li, n. 10) con un'indagine morfologica molto accurata riconoscono nelle forme perimetrali del cono del Gauro una terrazza scavata nel tufo giallo, all'altezza compresa fra i 200 e i 250 m. ; analoga TERRAZZE MARINE TERRAZZE VALLI VE 1 < Vers. Sorren. Vers. Amalfit. Vers. Orien. Vers. Sorren. Vers. Amalfit. Vers. Orien. f ° è Ripiano a Punta S. Elia, m. 22. Lembi terrazzati a Capo di Sorrento. Lembi terrazzati presso la Marina di S. Agnello. Terrazza a Km. 3 ad W di Positano, m. 10. Terrazza ad E di Punta di Capo di Conca, m. 6. I. Livello costiero s Punta Sorr., m. 60 Punta Camp., ni. 47. Lembo presso sco¬ gli Tre Fratelli, m. 70. Lembo terrazzato presso Cantiere Ca¬ stellammare, m. 70. Lembo basso fian¬ co del Faito, m. 80. Orlo mer. della pia¬ na Sorr., m. 50. Orlo mer. della pia¬ na di Vico, m. 80. Terrazza a SW de¬ gli scogli di Re commone, rii. 47 Terrazza di Vietri, ni. 80. li. Livello equiparato a: Capri m. 50 Picentino m. 166 E Lembo ad W di Sorrento, m. 140. Ripiano di Massa, m. 150 (marg. in- tern.); m. 115-120 (marg. esterno). Promotorio spiana¬ to della Torre di Montalto, m. 125. Spronetto spianato sopra la Marina di Cantone, m. 130. Ripiano costiero di fronte allo sco¬ glio di Isca, m. 142. Ili. Livello equiparato a: Capri m. 150 Picentino m. 220 g Lembo sopra Punta Gradelle. Tracce di terrazza¬ mento sul pendio occid. di S. Nicola (Lettere), m. 200- 225. Collina spianata a S di Nocera (Mas- ■ser. S. Pantaleo- ne), m. 2241- Spronetto sull'e¬ stremo piano de¬ stro della v. di Tarn Oliti ad W di Maiori, ni. 220. Poggierello a si¬ nistra della valle presso i ruderi del Castello, m. 240. Il m. 230 - 280 - 340 - 400 I <= oltre Spronetto spianato di M. Corbo, m. 230, Sprone spianato di Montoro tra Vico e Castellammare, m. 280. Kipiano di Lettere , m, 340. Ripiano sottostante al Corpo di Cava, m. 400. Terrazza a N della piana di Vico, m. 345. Terrazza a N della piana di Sorrento. Spronetto a sini¬ stra della v. Tra¬ monti presso Pon¬ te Primario m.300 Spronetto ivi a si¬ nistra, m. 260. Lembi pianeggian¬ ti a destra e a si¬ nistra della valle del Dragone m. 300-400. Terrazza Agerola. ! Livello equiparato a :( Capri m. 270-290 Picentino m. 320 - 99 - zona piana, alla medesima altezza e con una larghezza che tal¬ volta raggiunge i 100 m., essi riconoscono anche nel fianco set¬ tentrionale del Corvara. Altra terrazza marina a circa 200 m. sul mare rinvenne il Kranz ( Vulkanismus nnd Tektonik in Becken von Neapel , Peter- manns geogr. Mitteilungen, 1912) sul versante meridionale della collina dei Camaldoli, per cui è impossibile non notare la coinci aenza tra quest'ultima e quella del Gauro. De Lorenzo e Simoto- mai ancora (op. cit.) osservarono un'altra terrazza ai piedi del Gauro, tra i Cappuccini, subito ad oriente di Pozzuoli, e la sta¬ zione dell’arco Felice, nota col nome di La Starza, costituita da una successione di strati suborizzontali, in cui sono stati ritro¬ vati numerosi molluschi marini delle specie esistenti nel Golfo di Napoli. I citati autori, studiando la successione dei predetti strati constatarono che essi sono formati di tufi con conchiglie e con alternanza di sabbie marine, il che dimostra chiaramente che il deposito avvenne nel mare. Essi aggiungono ancora che ai depo¬ siti subacquei si sovrapposero altri subaerei dovuti alFaccumulo di materiali trasportati dal vento, in seguito alla esplosione degli apparati posteriori ; e poiché i residui della fauna marina si arre¬ stano a 30 m. di altezza, mentre gli strati più alti sono privi di resti organici, si può dedurre che il sollevamento marino si sia effettuato in queste zone soltanto per 30 m. Ponendo in rapporto le terrazze più alte del Gauro, di 200-250 m., con questa più bassa di 30 m., dobbiamo ammettere che il lento e continuo movimento di emergenza che portava alla superficie il cratere del Gauro, dopo un'emersione di 220 m. abbia avuto una sosta. Ma De Lorenzo e Simotomai non determinarono in 30 m. il poste¬ riore movimento ascensionale del Gauro, ma in 50 m., misuran¬ do tale altezza dall'orlo dell'erta parete, che delimita verso il mare la Starza e che si eleva fra i 40 ed i 50 m., onde essi conclu¬ sero che tutta la zona attualmente compresa fra il Gauro ad oc¬ cidente ed i crateri di Cigliano e di Campana ad oriente, fino a Montagna Spaccata, che si eleva appunt ; a 50 m. sul mare nella sua altezza minima, e logicamente ancora oltre, tutto il fondo del cratere di Quarto, che ha un'altitudine di 40 m.. fossero invasi dalle acque del mare. Si deduce di conseguenza che le prime esplosioni dei crateri circumvicini, dei quali abbiamo stabilita la successione in un nostro studio (/ Crateri di Quarto , in Bull. Vulc., S. II, T. VII, 1940) dovettero essere sottomarine, giacché i 100 - 20 m. sovrapposti de la Stazza sono per Pappunto composti di materiali dovuti a tali successive esplosioni. Ma se gli strati fossi liferi si arrestano a 30 m. ed i 20 m. successivi sono formati di materiali di accumulo subaereo, si deve pensare che in quel periodo la sola Starza fosse sommersa, mentre il retrostante territorio» per quanto a quota più bassa, già emerso, per cui le prime esplo¬ sioni dei crateri circumvicini al Gauro sarebbero state subaeree. Un posteriore sollevamento avrebbe stabilito le condizioni altime¬ triche attuali, facendo emergere la Starza, che si era andata for¬ mando per accumulo durante le soste precedenti, Comunque, tutto ciò avrebbe solo importanza per stabilire se il Gauro in quel periodo fosse ancora un'isola, o fosse soltanto bagnato dal mare lungo il suo margine meridionale. Ma non esclude il fatto che il cratere in un primo periodo abbia avuto forma insulare, come attestano, oltre il terrazzamento che De Lo¬ renzo e Simotomai riconoscono, anche le forme della sua de¬ molizione, consistenti in pareti erte, talvolta ertissime, che tron¬ cano nettamente i fianchi esterni del cono originario, privan¬ dolo di quelle pendici che perimetralmente dovevano continuare quelle settentrionali, meglio conservate. Infatti P originario dia¬ metro basilare del vulcano doveva essere di 4 km., mentre quello attuale, orientato secondo la direttrice E-W, non supera il chi¬ lometro e mezzo. Il De Stefani ( Die Phlegraischen Felder bei Neapel in Peter m. Mitt., Ergànz. n. 150, Gotha, 1907) credette di vedere in questa demolizione l'effetto di esplosioni successive, ma tale ipotesi è as¬ solutamente arbitraria, in quanto le esplosioni successive che hanno interferito con la loro cerchia in certo qual modo con quella del Gauro, furono quelle di Montagna Spaccata e di Quarto, ma en¬ trambe avrebbero dovuto interessare le pendici settentrionali, le quali invece sono le meglio conservate, e non le pendici meridio¬ nali, esposte al mare aperto. D’altra parte la grande forma circoide occidentale è sicuro indizio della potente azione demolitrice, che il mare ha esercitato sull’antica compagine craterica. Lo stesso Gùnther ( The Phlegraean Fields, Geogr. Journ., London, 1897), facile a in¬ terpretare tutte le forme circoidi che si rinvengono nei Campi Flegrei come crateri svasati, escluse per quanto riguarda lo sban¬ camento occidentale del Gauro, che questo fosse dovuto a fenomeni esplosivi, e ne ricercò invece l’origine nell’azione demolitrice del mare; ma la conferma migliore di tale ipotesi è data da De Lorenzo 101 - e Simotowai, i quali, in seguito ad un accurato studio di dati sui venti spiranti nel Golfo di Napoli, tracciarono un circolo rappre¬ sentante la base esterna di un vulcano, su cui spirano i venti, in¬ dividuati sui raggi con tratti proporzionati alla loro intensità e frequenza. Riunendo questi punti n'è venuta fuori una figura irregolare, rassomigliante all’ attuale perimetro basilare del Gauro, con la nicchia occidentale, con le pareti orientali e settentrionali meglio conservate, e con quelle meridionali troncate. Tutto ciò sta a dimostrare che il cratere del Gauro ha sofferta la sua massima demolizione per opera del mare, e che quindi originariamente era un’isola. A tale tesi addiviene completamente anche il Dainelli (Guida dell escursione ai Campi Flegrei, in Atti XI Congr. Geogr. lt., Voi. IV, Napoli, 1930). Se le esplosioni del Gauro furono sottomarine, e l'apparato vulcanico emerse alla superficie lentamente sotto la spinta del movimento ascensionale, si possono trarre due conclusioni: 1) La terrazza di 200-250 m. del Gauro e quella di 200 m. dei Camaldoli sono di origine marina, benché non esistano a quell'al¬ tezza tracce di fauna. Tale assenza è spiegata da De Lorenzo e Simotomai col fatto che " probabilmente la condizione topografica non era favorevole per la conservazione della fauna in quel sito; come ne abbiamo anche molti esempi in Norvegia, dove si trac¬ ciano le linee dell'antica spiaggia soltanto in base alla morfologia „. 2) I tufi gialli del 2° periodo flegreo sono di origine sotto¬ marina. A tale opinione si oppone il Minucci (op. cit.) il quale giudica che il sollevamento di " oltre 200 m., posteriore alla formazione dei rilievi vulcanici di tufo giallo è da accettarsi con molte riserve, tanto più che in contrapposto a queste dubbiose prove morfolo¬ giche di un livello marino tanto più alto dell'attuale, sta il fatto della mancanza di depositi fossiliferi, riportabili a queste condi¬ zioni di livello, che pure dovevano permettere al mare di invadere e di depositare i suoi sedimenti su vaste plaghe della regione flegrea, e della rarità, anche, di ben più evidenti residui della morfologia imposta da quel mare ai rilievi flegrei Ma tracce di un sollevamento per stasi in tutto l'ambito dei Campi Flegrei non è possibile escludere, non solo per le attuali altezze di m. 50, le uniche che il Minucci riconosce come segni di un livello marino, ma anche per altezze superiori, come ci dimostrano, oltre le due terraz¬ ze ricordate del Gauro e dei Camaldoli, anche tracce di precedenti — 102 — livelli lungo i fianchi dell’Epomeo nell'isola di Ischia. Ma di questo argomento parleremo fra poco. Nè la coincidenza fra le terrazze dei Flegrei di 200-250 m. e quelle riducibili ad analogo livello rinvenute a Capri e nella Penisola Sorrentina, è fortuita, nè cre¬ diamo di poter addivenire alla ipotesi del Minucci, che " lo scol¬ pimelo delle terrazze alte, dei 250 m., dovette avvenire con ogni probabilità, anteriormente alle manifestazioni vulcaniche del 1° periodo (anteriormente cioè alla formazione del tufo campano) e quindi prima della eruzione del tufo giallo, e necessariamente dello scolpimento su di esso delle supposte terrazze di abrasione marina del Oauro „. * A conforto della sua tesi il Minucci si serve delle testimo¬ nianze del Bellini ( Alcuni appunti per la Geologia dell'isola di Capri, in Boll. Soc. Geol. It., V. XXI, 1902), il quale per il de¬ posito fossilifero del Monte S. Michele di Capri (m. 249) parlò di “ una fascia di creta rossastra, di durezza quasi identica a quella del calcare dell’isola, entro il quale è compresa, e di cui numerosi piccoli frammenti vi sono rinchiusi senza fare nessun accenno ad elementi vulcanici. Sempre nel medesimo studio lo stesso Bellini indicò l'agglomerato fossilifero più basso di Cesina (m. 120) come " roccia costituita da conglomerato di ghiaia impastato di conchiglie „ senza che vi si scorgano tracce di materiale vulcanico. E così anche al di sopra della " roccia calcarea contenente Litho- domus lithophagus , L. sp., e tutta perforata da questi „ dell'albergo Faraglioni, ancora il Bellini esclude elementi vulcanici nel " gia¬ cimento di ciottolini arrotondati e solidamente cementati dalla creta calcarea rossastra indurita Dalle predette constatazioni il Minucci conclude che " sembra veramente plausibile argomentare, - dalla mancanza di elementi vulcanici, - che le alte terrazze di Capri siano anteriori all'inizio, se non addirittura dell'attività vulcanica della regione, almeno di quelle prime, più antiche, manifestazioni eruttive che determinarono su di un'area assai estesa ingenti ac¬ cumuli di materiali vulcanici ; intendiamo accennare a quella prima fase di attività vulcanica distinta dal De Lorenzo, ed alla quale si riferiscono i caratteristici depositi di tufo pipernoide o tufo campano „. Tuttavia il nostro autore, ponendo in dubbio l'affer¬ mazione del Kranz ( Moke Strandlinien auf Capri , XIII Jahrebs der Geographischen Gesell., Greifswald, 191 1-12) secondo cui non esisterebbero elementi vulcanici neanche nei depositi del livello -sottostante dei 50 m., accoglie le affermazioni del Rovereto (op. — 103 — 4it.) che elementi di tufo del 1° periodo flegreo si ritrovino anche a Capri nella depressione mediana dell’isola, a 130 m. di altezza, #l e ciò è già significativo quando si voglia ritenere per esso, - come è comunemente ammesso, - un'origine subaerea Che il tufo pipernoide possa essere attribuito a deposito di materiale lan¬ ciato in alto dal grembo della terra mediante esplosioni subaeree e non sotto¬ marine pare alquanto azzardato. Esso affiora molto di rado nella regione flegrea, ma invece ha grande estensione in tutte le zone circostanti. Lo si ritrova infatti a Cuma, e, nell'estremo limite orientale, è stato raggiunto dal pozzo scavato nel giardino del Palazzo Reale di Napoli (D'Erasmo, Studio geologico dei pozzi profondi della Campania , in Boll. Soc. Nat. in Napoli, Voi. XLIII, 1931) ad una profondità di circa m. 200, cioè a circa 180 in. al di sotto dell'attuale livello del mare, sovrapposto direttamente ad argille sabbiose quaternarie con conchi¬ glie marine. « Ma all'infuori della zona flegrea — osserva il Dainelli ( Guida dell' escursione ai Campi Flegrei , cit.) — questo tufo pipernoide o campano si ritrova a costituire largamente la pianura della Terra di Lavoro ed anche taluni fondi delle vallate alluvionali interne della Campania e a ricoprire terrazze lito¬ ranee a Capri e nella Penisola Sorrentina, e terrazze vallive ed altipiani nei monti tra il Picentino e il Matese. Le due forme litologiche (cioè piperno e tufo pipernoide) devono corrispondere ad una stessa fase eruttiva che ebbe il suo centro nell'attuale plaga flegrea, con eruzioni sottomarine, le quali forse porta¬ rono anche ad emersioni ». Anche il De Lorenzo (// cratere di Nisida nei Campi Flegrei , in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, Voi, XIII, S. II, n. 10) è propenso, contrariamente a quanto aveva affermato A. Scacchi, a considerare i tufi pipernoidi quale materiale dovuto ad esplosioni sottomarine per la loro «grande diffusione e la continuità di stratificazione orizzontale», oltre che per la loro stessa maggiore antichità. La mancanza di depositi di tufo campano nelle zone alte di Capri e della Penisola Sorrentina non è buona ragione per stabi¬ lire la precedenza dello scolpimento del'e alte terrazze rispetto a queste prime manifestazioni eruttive. Come giustamente osserva il Dainelli, oggi questi elementi vulcanici si trovano ampiamente raccolti sulle terrazze vallive e negli altipiani dei monti tra il Picento e il Matese, mentre mancano sui fianchi dei rilievi ; ciò è spiegabilissimo se si considera che “ molti dei depositi attuali in fondi vallivi ed in pianura sono da attribuirsi, almeno in parte, a successiva azione delle acque correnti, rappresentando cioè un prodotto di rimaneggiamento e un deposito secondario In tal senso chiaramente si esprime anche il De Lorenzo ( Il cratere di Nisida , cit.) quando osserva che " le ceneri grige e le pomici di — 104 — quel primo periodo, che furono sparse sopra un'area di un'ottan^- tina di chilometri di raggio, caddero uniformemente nel mare e sui monti della Campania, e da questi con la denudazione furono di nuovo trasportati al basso, nelle valli e nel mare, dove si de¬ positarono orizzontalmente per grandi estensioni, costituendo tutta la grande pianura campana, i fondi delle valli extracampane e le insenature estreme della penisola di Sorrento, come quelle di Sor¬ rento appunto e di Capri, dove si accumularono e si mescolarono gradatamente le ceneri lavate giù dai monti con le ceneri cadute direttamente nel mare e le pomici, che, dopo aver galleggiato sul mare, andavano ad ammassarsi ed affondare nelle insenature della costa Come nel rimanente sistema orografico della Campania, e persino del Molise; le ceneri grige di questo primo periodo non si rinvengono sulle dorsali dei monti ma nei fondi vallivi ed in pianura, ove questi depositi sono da attribuirsi, a detta del Dai- nelli, a successiva azione delle acque correnti, così nella Penisola Sorrentina ed in Capri le acque, abbattendosi qua e là selvaggia¬ mente sui fianchi dei monti, esercitarono un'intensa opera di de nudazione, trascinando verso il basso gli elementi incoerenti co¬ stituiti dalle ceneri vulcaniche. La osservazione del Bòse ( op . cit.) che, “ nelle maggiori depressioni si trova in gran copia accu¬ mulato il tufo trachitico proveniente dai Campi Flegrei „ è molto giusta, perchè indubbiamente lascia intendere che in tanto il tufo è accumulato nelle depressioni, in quanto sono state le acque sel¬ vagge, scendenti verso il basso, a convogliarlo. E non è forse una depressione quella mediana di Capri, a 130 m. di altezza, in cui il Rovereto ha riconosciuto elementi vulcanici , constatando un fatto che non è specifico di Capri, ma è comune alla Penisola Sorrentina ed ai monti circumvicini, e di cui si serve il MiNUCCr per farsene un argomento decisivo per la veridicità della sua tesi ? Che le acque piovane abbiano potuto operare una demoli¬ zione completa dei materiali tufacei incoerenti non desta mera¬ viglia, se sì pensa che il sistema idrografico quaternario, anteriore al ciclo attuale, fu molto più ricco di portata come abbiamo dimostrato nella prima parte del nostro lavoro a proposito dello scolpimento delle terrazze vallive, e se si pensa che in quel periodo Capri era ancora congiunta con la Penisola, con la quale parteci¬ pava alle medesime vicende fisiche. Una così intensa azione denu- datrice delle acque è riconosciuta anche dal Dainelli {Guida del - — 105 — dell1 escursione alla Penisola Sorrentina, cit.) nel Terziario supe¬ riore, cioè nel Pliocene, per cui egli immagina l'assenza di quei terreni " dovuta a successive azioni di denudazione, tanto più fa¬ cili e intense quanto più erano originariamente erte le superfici sulle quali quei terreni possono essersi depositati Nulla ci vieta, dunque, di credere che la identica azione distruttrice delle acque, che ha creato un hiatus nella serie geologica della Penisola sor¬ rentina, non abbia potuto egualmente asportare un materiale as¬ solutamente incoerente, perchè costituito di ceneri, convogliandolo verso il basso, nelle depressioni o addirittura nel mare. Il Rovereto {op. cit.), in base ad alcune osservazioni relative a frammenti di pomici lunghi da 70 a 80 cm. che si rinvengono in talune località dell'isola, ove sarebbero giunti galleggiando sul mare in un periodo in cui il livello dell’acqua era superiore all'at¬ tuale, livello che il Rovereto non determina e che il Minuc- ci — tenendo conto della distribuzione superficiale dei materiali vulcanici che occupano tutta la depressione tra la Marina Grande e la Marina Piccola — fissa intorno ai m. 180, stabilì la coesi¬ stenza di manifestazioni vulcaniche con il più alto livello marino, e determinò, posteriore a queste, come pure allo scolpimento delle terrazze di 150 e 270-290 m., la separazione dell’isola dalla terra¬ ferma, in conseguenza dei ritrovamenti di depositi tufacei divenuti assai noti per la fauna mammologica in essi rinchiusa e per i residui di un’industria umana paleolitica. Il Minucci, in base all’esame di terreni attraversati dal pozzo di Castellammare di Stabia, profondo m. 80, ha constatata una oscillazione del fondo marino. Fra i reperti di tale pozzo venne alla luce una prima fauna, che permise indiziare resistenza di un sollevamento di forse 70 m., mentre una seconda fauna, raccolta a 70 m. sotto il mare, indicò profondità originarie di ambiente forse inferiori ai 50 m. Dal che il Minucci deduce che alla depo¬ sizione della fauna più profonda seguì una fase di sommersione, per cui indica una intensità di almeno 70 m., che permise lo stabilirsi di un ambiente marino di notevole profondità, nel quale visse la fauna più alta, che subì posteriormente al suo deposito un sollevamento complessivo di circa m. 70. Questo recente sollevamento, secondo il Minucci, potrebbe corrispondere alle terrazza di Capri di m. 50. Egli osserva ancora che l'abbassamento riconosciuto dall’esame del pozzo di Castellammare si è anche contemporneamente verificato a Capri, ove ha preceduto l'ultimo sollevamento in una oscillazione 1* 106 — nella quale avrebbe di gran lunga prevalso, — come intensità, — il movimenro discendente. La linea di riva dei 50 m. sembra ve¬ ramente che possa ritenersi immediatamente precedente all'ultimo sollevamento ; l’abbassamento dunque, — se veramente verificatosi a Capri, — avrebbe preceduto, e potremmo dire anzi immediata¬ mente preceduto, lo scolpimento delle terrazze di quel livello Durante tale lento abbassamento del fondo marino si sarebbe ini¬ ziata l’attività vulcanica, come dimostrano le sedimentazioni " dei potenti depositi, — in parte notevole formati da materiali vulca¬ nici, — a facies di mare poco profondo, e talora, anzi, di am¬ biente strettamente litorale e lagunare Dunque, l’attività vulca¬ nica flegrea, come primo inizio, sarebbe coeva allo scolpimento delie terrazze di m. 50, il che escluderebbe il terrazzamento ope¬ rato dal mare sui fianchi del Gauro e dei Camildoli, a m. 200- 250, contemporaneo all'analogo livello riscontrato a Capri e nella Penisola, se l’esplodere dei fuochi flegrei del 1° periodo fu con¬ temporaneo al terrazzamento più basso di m. 50, mentre il ter¬ razzamento flegreo si rinviene sui fianchi di apparati costituiti di tufo giallo, cioè del 2° periodo. A queste conclusioni del Minucci, che contraddicono alla tesi da noi finora sostenuta, si possono opporre alcune osservazioni. 11 Bellini ( Osservazioni geomorfologiche sull'isola di Capri cit.) riportò al livello caprense di m. 50, per il quale il Kranz ( op . cit.) indicò fori di litodomi nelle brecce ricordate dall'OppEN- heim ( op . cit.) un deposito alla Marina Piccola con Terebratula , Corbula etc., mentre il Karsten (Zur Geologie der Insel Capri , in Neues Jahrb. fùr Min., Geol. und. Pai., Bd. I, Jahrg., 1893) presso la Marina Grande, ad una cinquantina di metri sul mare, rinvenne in un lehm ricoprente la roccia calcarea alcuni fossili, quali Spondylus gaederopus , Patella , Murex. Fra le molte specie riportate dallo Scacchi nel giacimento de la Starza ai piedi del Gauro appare lo Spondylus gaederopus. Fra le specie che il Guiscardi (Contribuzione alla Geologia dei Campi Flegrei , in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napdi, Voi. I, 1862) rin¬ venne nel giacimento fossilifero di M. Dolce, il cui sollevamento il Minucci suppose contemporaneo a quello de la Starza, appaio¬ no otto specie sulle undici ivi raccolte analoghe a quelle ritrovate ne la Starza, onde il Minucci asserisce che la " la coincidenza del valore del sollevamento riconosciuto in due località assai vicine tra di loro fa supporre la contemporaneità dei due depositi fos- — 107 - siliferi „, e più oltre aggiunge che " la contemporaneità dei due giacimenti di M. Dolce e de la Starza sembra anche confermata dall'analogia fra le due faune „ tanto più che “ è notevole, e forse significativa, la presenza, anche fra le poche forme raccolte nelle sabbie del M. Dolce, dello Spondylus gaederopus La presenza di questa specie fossile nel deposito della Marina Piccola di Ca¬ pri, come in quello de la Starza e di M. Dolce, oltre che nel de¬ posito fossilifero di Mezzavia in Ischia, come vedremo in seguito, sembra fornire al Minucci un elemento di più per giudicare della contemporaneità del livello dei m. 50 di Capri con l’analogo li¬ vello dei Campi Flegrei ; " non sembra che debbano sussistere molti dubbi in questo riferimento, poiché abbiamo riconosciuto in tutta la regione costiera campana resistenza di un recente solle¬ vamento d'intensità, almeno come valore più frequentemente oc¬ corso, intorno ai 50 m. Nè soltanto i depositi fossiliferi de la Starza e di M. Dolce attestano nei Flegrei il livello di 50 m., in quanto lo Stella Star- rabba (// Cratere di S. Teresa nei Campi Flegrei , in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, S. II, Voi. XIV, n 7, 1910) at¬ tribuì all'abrasione marina, verificatasi con un livello delle acque più alto dell'attuale, la profonda erosione del labbro meridionale del piccolo apparato craterico di S. Teresa, e il Parascandola {Sui pozzetti verticali e su talune altre forme che si rinvengono nell} isola di Procida , in Boll. Soc. Nat. in Napoli, Voi. XL, 1928) descrisse nell’ isola di Procida alcune tipiche forme di erosione dovute all'azione marina, che attesterebbero un recente solleva¬ mento dell'isola di circa 50-60 m. Infine il D’Erasmo (/ crateri della pozzolana nei Campi Fle¬ grei in Atti R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, Voi. XIX, S. II, n. 1, 1931) ricorda una terrazza nel tufo giallo della Punta del- V Epitaffio, che si andava formando per abrasione nel tempo in cui nella parte meridionale del Gauro “ si andava accumulando la terrazza marina de la Starza „. Orbene, se osserviamo le terrazze marine alte m. 50 della costiera sorrentina della Penisola, vediamo che queste, e propria¬ mente la terrazza di Sorrento per il tratto compreso fra Meta e Piano, sono costituite, per tutta l’altezza della parete precipite che dall'orlo superiore discende al mare, di tufo grigio campano, nè mancano potenti giacimenti di questo materiale vulcanico ad al¬ tezze anche superiori agli 80 m. in Vico Equense, come dimostra- 108 — rono Galdieri e Paolini (li tufo campano di Vico Equense, in- Atti R. Acc. Se. Fis. e Nat. di Napoli, S. II, Voi. XV, n. 15, 1913). Questi tufi di Vico Equense, che superano l'altezza di m. 50 — e che il Kranz escluse per tale altitudine, mentre ammise che lo scolpimento di terrazze di quest’ ultimo livello poteva essere avvenuto contemporaneamenle all’esistenza di fenomeni vulcanici — appartengono indubbiamente al 1° periodo flegreo, e già dimo¬ strano in un certo qual modo l'infondatezza della tesi del Minucci, perchè si trovano disposti in strati intercalati con sedimenti di conglomerati marini. D'altra parte, se accettassimo la tesi del Mi- nucci, che cioè la esclusione di materiale vulcanico dagli alti li¬ velli di Capri significa che durante lo scolpimento di quelle ter¬ razze i fuochi flegrei non avevano ancora iniziata la loro attività, mentre la presenza di tale materiale al livello inferiore dei 50 m. dimostrerebbe la contemporaneità di tale livello con l’ inizio delle esplosioni stesse, dovremmo concludere che le esplosioni del tufo pipernoide, che si rinviene nelle terrazze di m. 50 del versante sorrentino della Penisola, si siano verificate poco prima del ter¬ razzamento di tale livello. Ora il Minucci estende il terrazzamento di m. 50, dovuto ad un sol movimento ascensionale, anche ai Campi Flegrei, in quanto stabilisce che i depositi di Capri di tale altitudine ed i depositi de la Starza e di M. Dolce siano coevi. Ma il deposito de la Starza, come chiaramente risulta dalla mo¬ nografia di De Lorenzo e Simotomai è posteriore alla formazione del Gauro, per cui questo terrazzamento sta ad indicare P ultima fase di emersione di questo apparato dal grembo del mare ; il Gauro non è formato di tufo grigio, ma di tufo giallo, cioè il materiale che lo compone appartiene al 2° poriodo di esplosione flegrea, il che significa che le esplosioni di tufo grigio già erano avvenute, e se questo materiale si trova allo stesso basso livello de la Starza, in Capri e nella Penisola Sorrentina, significa che non vi si è depositato per accumulo diretto in seguito alle esplo¬ sioni, ma è un deposito secondario, che dall'alto dei monti, ove i venti lo avevano trasportato, è disceso per opera di un intenso dilavamento^ in grembo al mare, ove si è aggiunto alFaltra parte di materiale che ivi direttamente era caduto. Con il che ritorniamo al nostro primo asserto. Come conseguenza di quanto anbiamo dimostrato, è possibile stabilire un’equiparazione fra le terrazze di Capri e quelle dei Campi Flegrei, circa i livelli di m. 50 e di m. 270-290 di Capri ? — 109 — al primo di questi corrispondono la Starza, il deposito di M. Dolce, l'erosione del labbro meridionale di S. Teresa, i pozzetti di Procida e la terrazza della Punta dell'Epitaffio ; al secondo cor¬ rispondono l'alta terrazza del Gauro e quella incisa sul fianco me¬ ridionale dei Camaldoli. Mancano nei Flegrei tracce corrispondenti al livello di 150 m. di Capri, ma se si considera che la terrazza dei Camaldoli è alta 200 m. sul mare e quelle esistenti sui fianchi del Gauro hanno un'altitudine oscillante fra i 200 e i 250 m., per cui l’alto terrazzamento flegreo costituisce un livello interpo¬ sto fra i due alti livelli di Capri, l'uno di m, 150 e l'altro di m. 270-290, è naturale pensare che il livello flegreo sia equiparabile con maggiore veridicità al primo dei due livelli caprensi, testé ricordati, piuttosto che al secondo. Nelle pagine precedenti abbiamo equiparati i livelli della Pe¬ nisola di m. 140, 150 e 230 con quello di m. 150 di Capri ed abbiamo stabilito la corrispondenza fra queste terrazze di Capri e della Penisola e le terrazze del Picentino di m. 220, e fatto cor¬ rispondere al livello di Capri di m. 270-290 i livelli della Penisola di m. 230, 280 e 340, equiparabili alle terrazze del Picentino di m. 320. In altri termini abbiamo stabilito che la spinta dal basso in alto che ha fatto emergere le terrazze in questione sia stata meno intensa ad occidente e più intensa gradatamente che ci si sposta verso oriente, per cui è possibile spiegare i valori più alti delle terrazze del Picentino rispetto a quelle di Capri : tuttavia la zona di maggiore intensità è stata possibile individuarla nel fianco della Penisola che guarda il Solco di Cava. Le terrazze dei Flegrei di m. 200 o più hanno una quota intermedia fra le terrazze di m. 150 e 230 della Penisola che corrispondono al livello di m. 150 di Capri, il che farebbe supporre un movimento di emergenza nei Campi Flerei più intenso rispetto a Capri, con valore intermedio rispetto alla Penisola, e pressoché identico rispetto al Picentino. Se questa nostra ipotesi può essere accettata con verosimiglianza (jn tal caso sarebbe possibile spiegare la differenza dei valori di in¬ tensità del movimento ascensionale, o meglio la sua irregolarità rispetto alle zone circumvicine, attribuendola ala presenza di foco¬ lari magmatici nella regione flegrea) — se ne può dedurre che mentre il basso livello di m. 50 è pressocchè identico tanto nei Flegrei quanto a Capri e nella Penisola, — eccezion fatta per la terrazza di Vietri di m. 80, la cui maggiore altitudine è spiegabile appunto -avendo presente la maggiore intensità del movimento di emer- 110 genza da occidente ad oriente, — manca nei Flegrei il livello più alto corrispondente ai m. 270-290 di Capri , che raggiunge la massima altezza di m. 340 nella Penisola. Nè deve destare eccessiva meraviglia la mancanza di un più alto livello nei Campi Flegrei, ove le maggiori quote, cioè quelle superiori ai m. 300, son date esclusivamente dai Camaldoli (m. 458) e dal Gauro (m. 331). Il primo, lo sprone dei Camaldoli, è dovuto all’incontrarsi o sovrapporsi dei due argini dei crateri di Pianura e di Soccavo. Poiché non si tratta di terreni sedimentari, sottopo¬ sti ad un movimento di emergenza piuttosto regolare, ma di ap¬ parati craterici che molto facilmente, costituitisi nel grembo del mare, sono emersi alla superficie spinti dal basso in alto dall'atti¬ vità stessa ignea del suolo, la mancanza di terrazze ad un livello superiore ai m. 200 si deve attribuire ad una più intensa e più rapida spinta che gli apparati hanno ricevuto dal basso in alto, per cui il mare non ha avuto tempo di incidere le terrazze. Ai livelli più bassi riscontrati nella Penisola ed a Capri, cioè a quelli infe¬ riori ai 50 m., corrispondono numerose tracce lungo tutto il litorale flegreo, da C. Miseno fino a Napoli, includendo anche quest'ultima in tale distretto vulcanico (Castaldi, I crateri orientali di Napoli , in Bull. Volcan. S. II, T. II, 1937). Alcune di queste sono da noi già state messe in rilievo nei tufi di Posillipo ( Marmitte dei giganti nei tufi di Posillipo, in Gli Abissi, I, 1937). Ma le oscillazioni del suolo più intense nella zona, data la natura ignea del suolo e la presenza di numerose manifestazioni di vulcanismo secondario tut¬ tora in piena efficienza (acque termali, fumarole, mofete, fenomeni solfatarici), hanno finito in molti casi col distruggere le tracce della lenta e progressiva emersione delle terre, in quanto emersione e sommersione si avvicendano rapidamente e sono ancora oggi in atto (Gunther, Contributions to thè study of Earth-Movements in thè Bay of Naples, cit.). E’ necessario osservare a questo punto, che su i tre livelli di terrazze di Capri rispettivamente di m. 50, 150 e 270-290, indicati dal Rovereto e da noi accettati, concordano tutti gli studiosi. Il Kranz {Moke Strandlinien auf Capri , cit.) riconosce due livelli, uno più basso, a 50 m. sul mare, e un altro, più an¬ tico, a m. 200 ; la panchina di Cesine e le tracce di un livello marino a 120 m. (che secondo il Kranz sarebbe errato in difetto, in quanto l'altezza della pan¬ china risulterebbe invece di m. 1509 costituirebbero forse una fase intermedia.. II Minucci, in base ai reperti di brecce marine e di depositi fossiliferi — resi noti- - Ili dal Karsten (op. cit.) nel versante settentrionale del M. Telegrafo, dal Kranz {op. cit.) dalla cima del M. Tiberio fino al M. S. Michele, a NE dell'abitato di Capri, dal Bellini al M. S. Michele, dal Walter (op. cit.) che riconobbe fori di litodomi nel M. Torre di Guardia, e ancora dal Karsten sotto Caprile a NW di quest'abitato, — definì un livello di m. 200, a cui feceseguire un livello di m. 120, in base all'individuazione fatta dal Bellini della panchina in località Cesi¬ ne, e di Lithodomus lithophagus nei pressi dell'Albergo Faraglioni. Del livello di m. 50, che il Minucci accetta pienamente, abbiamo precedentemente parlato. Nelle pagine precedenti abbiamo fatto cenno deir opinione del Minucci relativa all’epoca di esplosione dei primi fuochi flegrei, cioè abbiamo detto che egli, in seguito ai reperti del pozzo di Ca¬ stellammare e dei pozzi di Napoli, ha creduto di poter stabilire una oscillazione del fondo marino, per cui un abbassamento avrebbe preceduto il sollevamento corrispondente al livello di m. 50. In base a queste sue affermazioni trae la conclusione che le manifestazioni vulcaniche sarebbero state contemporanee alla fase di abbassamento, anche perchè nei depositi fossiliferi di m. 150-200 di Capri man¬ cano elementi vulcanici, che altrove ha ritenuto indizio cronologico. Così pure la presenza di una o due forme estinte nella fauna fos¬ sile raccolta nei depositi di m. 150-200 ( Ostrea denticulata Born,; e Conus) gli ha permesso di riavvicinare quella faunetta. per quanto poco individuata, alla fauna dei proietti fossiliferi del M. Somma e dei depositi marini senza elementi vulcanici dei terreni profondi di Napoli. Mentre resistenza di queste sole due specie non è ele¬ mento veramente sufficiente per poter in pieno addivenire all’ipo¬ tesi del Minucci, anche perchè, com'egli stesso si esprime, quella faunetta è poco individuata, nè la mancanza di materiale vulcanico, come già abbiamo dimostrato, è argomento sufficiente per stabilire l’età del vulcanismo flegreo, le constatazioni morfologiche — che non si sa per quale ragione il Minucci non tiene in nessun conto — , le quali ci hanno permesso di stabilire un’equiparazione tra i li velli delle tei razze dei Campi Flegrei e quelle di Capri, della Pe¬ nisola e dei Picentini, ci danno ancora modo di constatare l’ante¬ riorità dell'esplosione di tufo giallo rispetto al terrazzamento di Capri, se non del livello di m. 270-290, per lo meno di quello di m. 150. Poiché precedentemente, servendoci della cronologia del Galdieri per le terrazze del Picentino, equiparate a quelle di Capri, ci è stato possibile stabilire l'età di queste ultime, possiamo con¬ cludere che i depositi del 2° periodo flegreo sono per lo meno an- — 112 — teriori alle terrazze di 150 m. di Capri e di 220 m. del Picentino, cioè alla fase interglaciale postrissiana. In tal modo, in base alla corrispondenza fra le antiche linee di spiaggia del territorio flegreo e quelle di Sorrento e di Capri, speriamo di essere riusciti a sin¬ cronizzare le manifestazioni vulcaniche flegree del 2° periodo con momenti precisi del periodo glaciale. Questi dati avranno maggiore chiarezza allorché avremo esaurita la nostra indagine, stabilendo altre due equiparazioni, runa fra le terrazze finora prese in esame e quelle dell isola di Ischia, e l’altra fra tutte queste e le terrazze del Matese. Per il momento è necessario soffermarsi su un'altra questione di grande importanza per gli studi geologici della nostra regione, cioè su quella inerente all'origine del tufo giallo. Ci augu¬ riamo che le ricerche da noi finora proseguite riescano in certo qual modo a far luce nella tanto “ vexata quaestio Come conseguenza della nostra indagine morfologica tendente a dimostrare che le alte terrazze incise nei fianchi del Gauro e dei Camaldoli son dovute all'azione abrasiva del mare, dobbiamo am¬ mettere o che i fuochi flegrei del 2° periodo siano esplosi al di sotto del livello marino, oppure, volendo ammettere un'origine su¬ baerea del tufo giallo, che gli apparati formatisi al di sopra del livello del mare abbiano subito un' immersione completa o quasi, e quindi, sollecitati dal movimento ascensionale posteriore a quello d'immersione, siano tornati nuovamente alla superficie. Molti sono gli argomenti che militano a favore dell’una e del- 1 altra tesi, cioè se il tufo giallo sia di origine sottomarina o su¬ baerea : e del resto già noti a tutti i geologi, per cui crediamo inutile entrare nei dettagli. Per un insieme di constatazioni che verremo via via esponendo, noi propendiamo per la tesi di coloro che assegnano al tufo giallo un’origine sottomarina. Tale origine è provata dalla compattezza degli strati, dal colore giallo dovuto all’azione alteratrice delle acque e dalla presenza, nella sua massa, di fossili marini e anche di vere intercalazioni di depositi sabbiosi e argillosi fossiliferi, sicuramente marini. Quest'ultimo argomento fu sostenuto dal De Stefani, che notò la presenza di tali depositi nel sottosuolo di Napoli e al M. Dolce, ma il Minucci ne critica l'asserzione in quanto la prima giacitura non troverebbe conferma nelle osservazioni più recenti, mentre la seconda si sarebbe disposta su una superficie pianeg¬ giante nelle pendici meridionali del M. Dolce prospicienti al mare, dovuta forse ad abrasione marina interessante la massa dei tufi 113 — gialli. Precedentemente alle osservazioni del De Stefani (op. cit.) che risalgono al 1907 , abbiamo quelle dello Hamilton (Campi Phlegraei, Napoli, 1776), che cita fossili marini nel tufo giallo della collina di Capodimonte, dello Scacchi (Notizie geolo¬ giche sulle conchiglie che si trovano fossili nell ’ isola di Ischia e lungo la spiaggia tra Pozzuoli e M. Nuovo , in Mem. Minerai, e Geol. di A. Scacchi, T. I, Napoli, 1842) senza indicazioni delle lo¬ calità del reperto ; del Walther (op. cit.) che trovò un’ Ostrea edulis nel tufo giallo della galleria attraversante la collina di Po- sillipo ; del Dell'Erba (Sulla sanidinite sodalito-pirossenica di Sant'Elmo , in Rend. R. Acc. Se. Fis. e Mat. di Napoli, S. II, Voi. IV, 1890), che accenna ad avanzi di organismi marini ritrovati nel tufo giallo durante l'escavazione del tunnel di Montesanto ; del Bellini ( Notizie sulle formazioni fossilifere neogeniche della re¬ gione vulcanica napoletana e malacofauni del M. Somma , in Boll. Soc. Nat. in Napoli, S. I, Voi. XVII, 1903) che riferisce intorno al ritrovamento di ottimi esemplari di organismi marini da lui fatto nei tufi gialli di S. Vincenzo alla Sanità e di Coroglio ; dello Stella Starrabba ( op . cit.) che rammenta la presenza di organismi marini nel tufo giallo del cratere di S. Teresa ed ancora del Bellini ( Nuove osservazioni sulla malacojauna fossile flegrea , in Boll. Soc. Geol. It., Voi. XLVIII, 1929), che determina a circa una trentina le specie fossili finora ritrovate nei tufi gialli. Il De Lorenzo {Il Cratere di Nisida, cit.). riassumendo le os¬ servazioni fatte dagli studiosi precedentemente al 1907, critica le loro osservazioni, in quanto le conchiglie bivalvi sarebbero rap¬ presentate da una sola valva, e quindi il loro deposito non sarebbe avvenuto “ in sito „, mentre i gusci calcinati dimostrerebbero che sono stati compresi in ceneri calde ed asciutte ; del resto queste conchiglie, relativamente rare ed in apparente disordine, mostrereb¬ bero di appartenere a livelli differenti. Il Dainelli ( Guida dell’e¬ scursione ai Campi Flegreit cit.) obietta che non solo sono stati osservati fossili più o meno isolati , ma anche straterelli mar¬ nosi e sabbiosi conchigliferi, per quanto in lembi piccoli e quasi frammentari. " Sarebbe d’altronde impossibile pretendere ordinate e inalterate condizioni di giacitura e perfetta conservazione di gusci, quando s'immagini il fondo marino — sul quale si andavano de¬ positando i consueti sedimenti terrigeni e i gusci degli organismi — squarciato, sconvolto e sommosso da violente azioni esplosive I sostenitori dell’origine subaerea dei tufi gialli asseriscono che i 114 — materiali sottili di origine vulcanica possono acquistare compat¬ tezza anche fuori delle acque marine. Innanzitutto si tratta di ve¬ dere se tale compattezza che nei tufi gialli a volte assume la du¬ rezza del macigno [valgano ad esempio alcuni giacimenti di tufo da noi rinvenuti nell’ argine del Cratere di Quarto, (/ Crateri di Quarto , cit.) ] si possa acquistare sulle terre emerse senza l’azione cementatrice delle acque; nè basta ricorrere a quelle percolanti, altrimenti non avremmo una così netta differenziazione di compat¬ tezza fra i tufi gialli, che si adoperano come ottime pietre di co¬ struzione, e quelli grigi assolutamente farinosi e incoerenti. Così pure all'obiezione mossa dal De Lorenzo che se le esplosioni del 2° periodo fossero state sottomarine malamente si potrebbe spie¬ gare la disposizione quaquaversale di banchi o liste di pomici in argini craterici, giacché queste ultime, dopo un periodo di galleg¬ giamento più o meno lungo, si sarebbero dovute deporre nel fondo delle acque in strati pianeggianti, si può osservare che tali pomici, dopo il galleggiamento, si devevano deporre su qualsiasi superfi¬ cie marina sulla quale fossero cadute, sicché, se questa aveva la forma di quaquaversale, propria di un apparato craterico, anche le pomici, depositandosi a strati, dovevano seguire la disposizione to¬ pografica quaquaversale degli strati sottostanti. Il Minucci, che segue Y opinione dei fautori dell'origine sub¬ aerea, ricorda che nella massa dei tufi sarebbero frequenti, rispetto agli avanzi di organismi marini, tracce di vegetali terrestri più o meno carbonizzati. Ma nulla ci vieta di credere che tali materiali fossili vegetali non siano prova di deposito subaereo, bensì di flui¬ tazione. Infine per il D' Erasmo ( Cenni geologici sui Campi Flegreit in Atti XIX Congr. Naz. nei Campi Flegrei, 1928) sarebbe signi¬ ficativa, a conferma di un'origine subaerea dei tufi gialli, la spro¬ porzione fra gli avanzi marini, ritrovati nel tufo, e l'enorme quan¬ tità di questo materiale escavato in tutti i tempi per i bisogni edi¬ lizi della città e per 1' apertura di gallerie. Possiamo obiettare an¬ cora a questo che il grande numero di esplosioni, la loro frequenza e il continuo spostarsi dell' asse eruttivo in breve spazio, per cui gli argini craterici si sono intersecati e sovrapposti l'uno con l'altro dando alla regione l'aspetto di un paesaggio vulcanico lunare, non sempre hanno permessa la sedimentazione dei fossili, per il con¬ tinuo disturbo recato agli strati tufacei, su cui questi avrebbero dovuto depositarsi. Recentemente il Dainelu ( op . cit.) si è schie- rato in maniera decisa dalla parte dei sostenitori deir origine sot¬ tomarina del tufo. Di questa sua opinione già abbiamo fatto cenno a proposito della terrazza del Gauro, ricordando com’ egli creda che quel vulcano dovette essere stato circondato dalle acque, cioè essere insulare, non nel senso che un movimento di sommersione posteriore alla sua formazione subaerea lo avesse reso tale, ma nel senso che l'esplosione da cui venne fuori il materiale tufaceo, che ne costituì l'argine craterico, ebbe luogo sotto il livello del mare. Ci piace riportare alcune espressioni che chiaramente rivelano la sua idea in proposito : " Tutti gli apparati di tufo giallo devono essersi formati, almeno prevalentemente, sottomarini — essere stati sottoposti ad un sollevamento con soste — essere stati più o meno battuti e demoliti dalle acque del mare, prima che su di essi agi- sero soltanto gli agenti subaerei Precedentemente si esprime a tal proposito con chiarezza ancora maggiore : " Crediamo che, — anche se possono permanere alcune ragioni d'incertezza —, sia assai più vicino al vero chi immagina eruzioni sottomarine per gli apparati costituiti dal tufo giallo : come del resto per quelli del precedente periodo. Potrebbe, tutt’ al più, supporsi che almeno i maggiori di essi abbiano cominciato ad affiorare, ad emergere dalle acque fin dal primo momento della loro formazione, via via che andava accrescendosi l'accumulo dei loro materiali. Quello che si può ritenere per certo si è eh;, — come vi sono evidenti tracce di un sollevamento, cioè di un'emersione, se così si può dire, a sbalzi, cioè con soste, per l’Epomeo di Ischia, — così altrettanto si può ritenere per i vulcani di tufo giallo. Ed al¬ lora volendo sostenere una loro origine subaerea, bisognerebbe per l'appunto adottare quella ipotesi che immagina anche, succes¬ sivamente, una loro immersione, precedente alla emmersione finale. Ma questa è una complicanza che, pur in una zona, della quale si conoscono assai bene le complete oscillazioni, però di piccola intensità, repugna un poco, quando non abbia — come evidente¬ mente non ha — solidi fondamenti ». Come conferma dell'opinione del Dainelli, che è anche la no¬ stra, si può addurre la constatazione fatta dal D'Erasmo (/ Crateri della pozzolana , cit.), a proposito della tettonica dell'A verno: "Analo¬ gamente a quanto si è verificato per altri vulcani flegrei è molto probabile che la prima esplosion* dell’ Averno abbia avuto luogo sotto il livello del mare . La scarsa elevazione attuale delle sue pendici i I — 116 — | non ci permette alcun efficace parallelismo col vicino vulcano del Gauro, più antico e sorto probabilmente in forma d'isola per il quale De Lorenzo e Simotomai, fondandosi sulla presenza di una specie di terrazza esistente a quasi 250 m. d'altezza, determinarono in circa 200 metri il valore del primo sollevamento rapido del fondo, al quale seguì indubbiamente una sosta . Tracce dell'an¬ tica origine submarina dell'Averno si riscontrano lungo il pendio interno della parete settentrionale, all’altezza appunto di poco meno di 50 m. sull'attuale livello del mare, ove alcuni straterelli di ceneri e di pomici hanno i caratteri di un deposito effettuato sotto l'acqua del mare Se questa è la genesi dell’Averno, nulla ci vieta di credere che la stessa genesi sia da supporre per tutti gli altri crateri di tufo giallo, Gauro compreso, come del resto lo stesso D'Erasmo indica ; con queste sue affermazioni che risalgono al 1931, indub¬ biamente ritratta quanto aveva affermato nel ’28 circa la spropor¬ zione tra gli avanzi marini ritrovati nel tufo e l'enorme quantità di questo materiale scavato in tutti i tempi, affermazione che il Mixucci dice significativa a conferma di un'origine prevalente¬ mente subaerea dei tufi gialli, tacendo l’affermazione posteriore del D'Erasmo, che evidentemente distrugge quella precedente. Da tutto questo complesso di dati, risulta che l’ ipotesi più veridica è quella che assegna un'origine sottomarina al tufo giallo, perchè questa è confortata, oltre che da prove geologiche, anche da osservazioni morfologiche, che non si limitano alla semplice constatazione di vari livelli di terrazzamento nei Campi Flegrei, ma ne stabiliscono l'equiparazione alle varie terrazze di Capri e della Penisola, del Picentino e del Matese, oitre che ai livelli ma¬ rini che ci attestano i ritrovamenti fossili dell'isola d’Ischia. 11 Breislak ( Topografia fisica della Campania , Firenze, 1798) per primo asserì la presenza di una formazione marnosa sul- l'Epomeo, servendosi delle dichiarazioni di " alcune persone del luogo „ che gli riferirono di aver trovato nelle argille “ corpi ma¬ rini Quasi cent’anni dopo abbiamo le osservazioni del Fuchs e del Mercalli. Il primo ( Die Insel Ischia , in Iahrb. d. k. k. Geol. Reichs, Bd. XXIF Wien, 1872; Monografia geologica dell1 isola d’Ischia, in Memorie del R. Comit. Geolog. d’Italia, Voi. II, p. la, Firenze, 1873) distinse una massa di color giallo sporco che egli credè alterazione del tufo verde, mentre, come egli avverte, "dagli autori che precedettero fu descritta come marna „. — 117 — La vera marna invece sarebbe compresa in lembi di diverse di mensioni in questa massa tufacea alterata. Il Mercalli ( Vulcani e fenomeni vulcanici , in Geologia d' Italia di Stoppani, Negri e Mercalli, 1883) espresse l'opinione che il tufo argilloide alterato, di cui parla il Fuchs, non fosse altro che cenere vulcanica depo¬ sitatasi in grembo al mare. Molti altri studiosi, dal Mercalli ad oggi, hanno scritto di Ischia, della sua natura vulcanica e dei terreni che la compongono ; fra questi merita la massima consi¬ derazione il De Lorenzo, il quale {L’attività vulcanica nei Campi Flegrei , in Rend. R. Acc. Se. Fis. e Mat., S. Ili, voi. X, Napoli, 1904) stabilì che nella caotica successione di bocche esplosive, che si aprirono nei Campi Flegrei, la priorità spettasse a quella del¬ l’isola d'Ischia, da cui venne fuori il caratteristico tufo verde, che attualmente costituisce l'impalcatura fondamentale deH'Epomeo. La priorità di tale bocca e quindi, di conseguenza, di tale materiale, è dimostrata dal fatto che il tufo verde si ritrova spesso in fram¬ menti inclusi in altri tufi, appartenenti ai rimanenti vulcani flegrei, chiaramente distinti da quello verde, non solo per l'aspetto esteriore, ma anche per natura chimica e mineralogica. Costituitosi il cono delTEpomeo, questo successivamente fu corroso e sbassato (fig. 29), ed in parte demolito dagli agenti esterni, mentre altre bocche eruttive s'andavano aprendo nel tempo, e coni avventizi si forma¬ vano su i suoi fianchi, man mano che l'isola andava emergendo dall’acqua. Altrove {Geologia dell' Italia meridionale, cit.) lo stesso De Lorenzo conferma la sua opinione con le seguenti parole : " Il primo punto in cui forse si accesero i fuochi flegrei è rap¬ presentato da Ischia. Quest'isola attualmente sorge per 792 m. dal mare, e s'affonda per quasi altrettanti direttamente in esso , in modo da formare un grande cono, forse tutto vulcanico, di 1600 m. La parte superiore di tale cono, l'Epomeo, già in gran parte cor¬ rosa ed infranta, è costituita da tufi verdicci e giallastri che giù per i fianchi del monte sono alterati in una marna bianchiccia» argillosa, contenente molte conchiglie, uguali per la maggior parte (tranne poche specie estinte) a quelle che ora vivono nel golfo sottostante, e che dimostrano che quando l’Epomeo s'era for mato o si formava, al finire del Pliocene, o al principio del Pleistocene, il mare ondeggiava ancora a 600-700 m. di altezza sull’attuale „. Il Dainelli accetta pienamente le affermazioni del De Lorenzo in quanto nota che quest'isola a testimoniare il potente solleva- 118 - mento del fondo del mare " mostra terrazze ad oltre 500 m. di altezza, ricoperte di conchiglie marine,,. Recentemente il Rittmann ( Geologie der Insel Ischia in Er- gànzungsband VI, Zeitschrift fùr Vulkanologie, Berlin, 1930) a cui si deve il migliore studio litologico, se non la migliore ricostru* Ediz. Anderson . Fig. 29. — Cono dell' Epomeo (Ischia) corroso e sbassato. zione geologica dell’isola d'Ischia, ha dimostrato in base a ricerche microscopiche che i frammenti minerali, che costituiscono la parte intima delle marne più sottili, provengono da materiali originari dei tufi verdi, mentre il contenuto di carbonato di calcio, che oscilla fino a un massimo del 20%, deriva da frammenti di mol¬ luschi e foraminifere inglobati nella massa argillosa. Queste marne si presentano in lembi più o meno estesi sovrapposti ai tufi verdi, e risultano, grosso modo, limitate alla sola metà orientale delTEpo* meo, ove da pochi metri sul mare raggiungono altezze, che vanno tino a m. 700. I giacimenti fossili in esse inclusi sono stati osser¬ vati del Lyell (Principi e s of Gcology, London, 1882) nei pressi di Moropane (oggi Buonopane) sui fianchi meridionali, fino a 50u m., 119 dallo Scacchi [Notizie geologiche sulle conchiglie , ecc. cit.) lungo la strada di S. Nicola, al disopra di Fontana, ad un’altezza*di 555 m.; dal Fonseca [Descrizione geologica dell isola d' Ischia, in Ri¬ vista delle Alpi, degli Appennini e Vulcani, II, 1865) e dal Fuchs (Die Insel Ischia , cit.) sui fianchi dell'Epomeo a 500 m. d'altezza. Altri ritrovamenti sono stati fatti dal Waters (Van den Broeck, On some f or amini fera from Pleistocene Beds in Ischia precede d by some geological remarks by A. W. Waters, in Journ. geol. Soc., 34, ri. 134, London, 1878) al M. Puceto, dal Kranz (Vulka- nismus und Ttktonik in Becken von Neapels , cit.) ad oriente del l'Epomeo, nei pressi del Colle Jetto a 640 m. ; e dal Rittmann (od. cit.) che, mentre conferma i giacimenti di organismi marini fino all’altezza di 590 m., accenna alla presenza di marne a Pietra di Cantarello, a circa 700 m. di altezza. Altri reperti marini si trovano in località più basse, al di sotto della lava di M. Tabor e presso la marina di Cafiero ad oriente del predetto monte. Dalla grande carta litologica che accompagna lo studio del Rittmann, risulta che il deposito delle predette marne è in massima parte localizzato nel versante nord-orientale, mentre nel versante meridionale non presenta quell'estensione di superficie che mostrano i rilievi del Fuchs e dell’ Ufficio Geologico , perchè non di¬ scende al di sotto dei 400 m. Ancora al Rittmann si deve una strana osservazione: che l’Epomeo non sia un apparato vulcanico costi¬ tuito dai tufi verdi, che ora appaiono nelle attuali forme del rilievo, cioè che questi tufi verdi non sarebbero usciti dal condotto vul¬ canico delPEpomeo, ma proverrebbero da una bocca eruttiva rela¬ tivamente lontana dall'area attuale dell' Epomeo, e si sarebbero depositati in fondo al mare, determinando una superficie superiore di deposito ancora sottomarino, sulla quale si sarebbero depositate successivamente le marne fossilifere. Riprendendo il motivo tetto¬ nico del Kranz, egli ammette che fenomeni vulcanici avrebbero provocato il sollevamento posteriore avvenuto per zolle, dando luogo a scorrimenti fra le varie masse dell' isola, e determinando i motivi fondamentali dell'attuale rilievo. Alla ricostruzione del Rittmann si può obiettare che non si presta a una facile accetta¬ zione l'ipotesi che l’Epomeo non costituisca il residuo di un appa rato vulcanico, di cui rimangono tracce evidenti aeli'orlo superiore craterico nel complesso di creste piegate ad arco, che da Pietra dell'Acqua, (m. 721) raggiungono Pietra dei Cantarello (m. 704), 120 — la vetta vera e propria dell’Epomeo (m. 788), e discendono a quota 666, poco prima di Colle Jetto (m. 589). Così pure non è facile ammettere che il tufo verde, che costituisce la fondamentale im¬ palcatura di quest’argine, non derivi dal condotto vulcanico, a cui si deve il materiale della cerchia aperta verso mezzogiorno, sbas¬ sata e corrosa, circondata a S e ad E da un altro complesso di rilievi (anch’esso disposto a forma di argine, più basso del pre¬ cedente, con la concavità rivolta verso l'Epomeo, a cui si riattacca presso Pietra dell’Acqua, e che, procedendo a W di Rocca di Serra piega a S includendo Serra di Fontana, lambisce quasi Ba¬ rano d’Ischia, quindi piega a N, fino a toccare M. Tribbiti, poi» volge ad W, e si salda con la cerchia vera e propria dell'Epomeo, fra P. Spinazzola e C. Jetto), potrebbe non essere altro che un'in¬ sellatura corrispondente a quella che attualmente separa il gran cono del Vesuvio dal M. Somma, e la cerchia esterna, che testé abbiamo descritta, sarebbe l'argine di un primitivo cratere, inclu¬ dente l’argine deH’Epomeo. In altri termini, si tratterebbe di un sistema a recinto quale il Somma-Vesuvio : la cerchia esterna rap¬ presenterebbe un primitivo argine a somiglianza di quello del Somma, frantumato e semidistrutto dalla successiva esplosione dell'Epomeo, come l'argine del Somma per l'appunto fu distrutto dalTinclusione in esso dell’attuale gran cono del Vesuvio. In questa nostra ricostruzione tettonica dell'isola di Ischia, che per il mo¬ mento ha semplice valore d'ipotesi, non escludiamo che oltre a fenomeni di esplosione, sia stata l'acqua del mare ad abradere, sbassare, spezzettare e corrodere l'antica compagine craterica, tanto più che a differenza di quelli che credono che l’Epomeo abbia subito un periodo d'immersione, durante il quale si sarebbero depositate lungo i suoi fianchi ad altezze variabili da pochi metri fino a quasi 700 m. le marne immediatamente poggiate sui tufi verdi, noi aderiamo all’opinione dei sostenitori di una primitiva origine sot¬ tomarina del sistema principale dell'isola d'Ischia, già smantellato, oltre che da fenomeni di esplosione, anche dall'azione dei flutti du¬ rante il periodo di costruzione sottomarina, e che, sollevatosi succes¬ sivamente dal mare, porterebbe impresse le tracce della sua lunga giacitura sott’acqua nei vari depositi di marne, “fino a 700 m. di al¬ tezza, e nelle terrazze, che si riscontrano fin oltre i 500 m., ricoperte di conchiglie marine. Questo sollevamento, che ebbe effetto per poche decine di metri nel più antico periodo di esplosioni flegree, subì una stasi nel tempo in cui si accendevano i fuochi del primo — 121 — periodo, cioè quello a cui dobbiamo attribuire la formazione dei tufi grigi pepernoidi, e si riprese nel secondo periodo, del tufo giallo, come dimostrano le terrazze dei Camaldoli e del Gauro, fino alla completa emersione di questi vulcani, attestati dal deposito di M. Dolce e dalla terrazza de la Starza. Certo, durante il periodo del tufo grigio fino alla esplosione delle successive bocche eruttive già dovevano sporgere le sommità del sistema a cui si deve l’isola d' Ischia, per cui queste tanto più facilmente erano battute e di¬ strutte dal mare, quanto più piccole e recenti di origine. Ma la vera e completa emersione non si ebbe se non durante il periodo del tufo giallo, per cui precedentemente una vera e propria ter¬ raferma flegrea non si era ancora formata, a meno che non si vo¬ glia ammettere una potente e completa oscillazione del fondo. Con questo non vogliamo negare che oscillazioni non vi siano state durante il periodo creativo degli apparati, però ripugna al nostro ragionamento ammettere un abbassamento comunque superiore ai 700 m., tanto da riportare la vetta deH’Epomeo sott’acqua e per- mettere sui suoi fianchi il deposito di marne fossilere. Le ragioni che si oppongono aH’ammissione di un così intenso movimento negativo del suolo sono le seguenti : 1) Dall'esame della fauna delle marne risulta un'omogeneità dei caratteri ambientali, per cui il Minucci osserva che non si è “ riscontrato che i depositi marnosi più bassi siano stati deposti sotto condizioni di profondità marine più grandi dei depositi alti- metricamente più elevati „. Quest’osservazione non vale a sostenere la tesi del Minucci, in quanto per lo stesso argomento si può pensare che le marne che si trovano sull'Epomeo si siano depositate man mano che l’Epomeo emergeva, e tutte sotto condizioni di profondità marine simili, come attestano le faune in esse racchiuse. Inoltre, l'omogeneità del deposito induce a ritenere che le specie che si trovano in alto sui fianchi dell’ Epomeo sono le stesse del giacimento di Mezzavia, di cui fanno menzione lo Scacchi, lo Spada Lavini, il Bellini, il Rittmann. Dal che si deduce che le marne del deposito di Mezzavia, alto 50 m. sul mare, sono coeve a tutte le altre, e cioè che, come si diceva, man mano che l'Epomeo sorgeva dalle acque, durante i periodi di stasi le marne fossilifere si adagiavano sui suoi fianchi. Se avessimo avuto prima un'emer¬ sione, poi una sommersione, e quindi una nuova emersione, presso che completa, fra i fossili avremmo dovuto trovare numerose specie estinte, di cui invece il Rittmann (op. cit.) affermò la mancanza. li — 122 — E’ vero che il Philippi ( Ueber die subfossilen Seethier-Reste von Pozzuoli bei Neapel und auf der Insel Ischia , in Neues Jahrb. fùr Geogn. und Petref., Jahrg. 1837), lo Spada Lavini (Sur l'àge des tufs de l’ile d'Ischia , in Boll. Soc. Géol. de France, S. II, T. 15, 1857-58) e il Bellini (Nuove oiser nazioni sulla rnalaco fauna fossile flegrea , cit.) accennano all’esistenza di Rhynconella bipartita Br. fra le marne dell'Epomeo, ma la sola presenza di questa specie, oggi scomparsa dai nostri mari, non è un elemento decisivo, come non lo costituisce per Capri la presenza di Ostrea denticulata Born. ritenuta dal Bellini varietà estinta di Ostrea stentina Payr. ; tutto al più può testimoniare l'antichità della formazione dell' Epomeo rispetto agli altri apparati flegrei, e quindi indicare un primo de¬ posito anteriore a quello marnoso fossilifero sovrapposto ai tufi verdi. Dalla presenza dello Spondylus gaederopus nel deposito di Mezzavia, il Bellini ( Notizie sulle formazioni fossilifere neogeni¬ che della regione vulcanica napoletana , cit.), seguito dal Minucci, ritenne tale deposito coevo a quelli di M. Dolce e de la Starza ; data l'omogeneità della fauna fossile inclusa nelle marne dell'Epomeo siamo dunque indotti a ritenere che il sollevamento dell'isola d’Ischia si sia verificato contemporaneamente al sollevamento del Gauro, cioè degli apparati del 2° periodo. 2) Stabilito il deposito delle marne fossilifere dell'isola d’I- schia coevo a quelli de la Starza e del M. Dolce, dovremmo am¬ mettere un abbassamento di m. 700 durante il primo ed il secondo periodo flegreo per l’isola d'Ischia, la qual cosa significherebbe che l'Epomeo si sarebbe alzato precedentemente per 700 m. ed oltre, e quest'innalzamento si sarebbe dovuto verificare durante il primo periodo di esplosione del tufo campano. Ma tutto ci lascia arguire che a questo primo periodo eruttivo non siano seguiti fenomeni di sollevamento del fondo, per lo meno di molti metri, altrimenti la plaga flegrea sarebbe già emersa. D'altra parte, nessun dato ci autorizza a credere a un'oscillazione del fondo marino di m. 700- Il Minucci, nell'esame delle terrazze di Capri, è indotto ad ammettere che, durante il movimento generale dì sollevamento dell'isola, a cui si deve lo scolpimento delle terrazze, si siano in¬ tercalate fasi più o meno intense di abbassamento : così egli con¬ clude che l'abbassamento riconosciuto dall’esame del pozzo di Castellammare si sia contemporaneamente verificato a Capri, per — 123 — quanto non vi siano elementi precisi per dimostrare tale supposi¬ zione. Lasciando da parte quest'affermazione del Minucci, che ab¬ biamo già a suo tempo discussa, è interessante notare come egli ponga in rapporto l'abbassamento riscontrato a Castellammare di Stabia con quello verificatosi a Napoli, dove i pozzi spinti a forti profondità permisero di riconoscere un abbassamento assai più intenso, di quasi m. 300, per cui egli conclude che " il valore più sopra rilevato per Castellammare di Stabia potrebbe quindi essere anche di molto inferiore all'abbassamento realmente verificatosi in quella località,,. Tale abbassamento avrebbe preceduto in Capri lo scolpimento della terrazza di m. 50, e poiché la presenza dello Spondylus gaederupus indicato dal Karsten alla Marina Piccola di Capri, a 50 m. di altezza, fornisce un elemento di più per giu¬ dicare della contemporaneità di 50 m. di Capri con i depositi fos¬ siliferi di Mezzavia e de la Starza, e, data l'omogeneità della fauna ischiana, dovremmo desumere che l’ abbassamento verificatosi a Castellammare per 70 m. (valore creduto dal Minucci molto in¬ feriore all’abbassamento avuto in quella località) e a Napoli per m. 300, nientedimeno avrebbe avuto ad Ischia un valore di m. 700. E' vero che trattasi di una zona vulcanica, in cui le oscillazioni del suolo non sono infrequenti, ma su breve superficie, quale è quella compresa fra Napoli ed Ischia, una differenza addirittura di 400 m. appare molto esagerata. Possiamo, in conclusione, riaffermare la contemporaneità dei de¬ positi di Mezzavia di Ischia con quelli di Capri (terrazza di m. 50), de la Starza e di M. Dolce nei Campi Flegrei. Possiamo ancora affer¬ mare che il sollevamento dell'Epomeo è posteriore al Pliocene ; che i terrazzamenti che si rinvengono sull'Epomeo ad oltre i m. 500 non si possono riscontrare a Capri, perchè quando l'Epomeo emergeva di tanti metri dal mare, il M. Solaro era ancora uno scoglio ap¬ pena accennante ad emergere dalla liquida superficie, che le oscil¬ lazioni del fondo marino o, per meglio dire, le soste intercalatesi al movimento di emergenza, a cui si deve lo scolpimento delle terrazze e il depositarsi di faune fossili, sono state più intense nella zona flegrea che nel rimanente del Golfo di Napoli, perchè la prima è sovrastante ad un bacino magmatico ancora in piena efficienza, come dimostrano i depositi fossiliferi e le terrazze su¬ periori a m. 500 di Ischia, a cui non corrisponde nessun livello nè della Penisola Sorrentina, nè dell'alta valle del Picentino, Se — 124 — nei rimanenti Campi Flegrei mancano tracce di tale alto livello, ciò è dovuto al fatto che la maggiore altezza dei Flegrei non su¬ pera i m. 458 (Camaldoli). Il movimento di emersione tanto del¬ l'isola di Ischia quanto delle altre zone prese in esame appartiene interamente al Quaternario*, in particolare, l'emersione delle terrazze si è verificata nelle età interglaciali, mentre nelle età glaciali da un lato si verificavano i periodi di stasi interrompenti l’emersione stessa, dall'altra si accendevano i fuochi flegrei. Se le alte terrazze del Gauro e dei Camaldoli, equiparabili al livello di 150 m. di Capri, sono da attribuirsi all'età postrissiana, ciò significa che nell’ età rissiana si aprirono le bocche ignivome del 2° periodo, probabil¬ mente nell'età mindeliana avemmo la formazione del tufo grigio campano, e nell'età gunziana l’eruzione del tufo verde d'Ischia. La presenza di Modiola modi lus, specie caratteristica dei mari dei Nord, che il Bellini (Nuove osservazioni sulla malaco fauna flegrea , cit.) riconosce nelle marne dell'Epomeo, indica condizioni termiche inferiori alle attuali, ciò a conferma di quanto avevano già asserito il Van den Broeck ed il Waters (op. cit.) ; quest' ultimo nella introduzione all’opera del primo aveva concluso che “ la marna fu depositata quando l’influenza del grande raffreddamento dei ghiac¬ ciai cominciò a farsi sentire „. Ciò per l’appunto conferma quanto precedentemente abbiamo prospettato e che è discordante dalla cronologia stabilita dal Galdieri (op. cit.), il quale fa risalire la pioggia di cenere durante l'emissione del piperno, cenere che si consolidò nel tufo campano, alle ultime due fasi del Glaciale, alla wurmiana e alla postwurmiana. Il sollevamento che nei Campi Flegrei, isole comprese, ebbe maggiore intensità, almeno rispetto alla Penisola Sorrentina, in quanto gli alti li elli di Ischia non si rinvengono nella Penisola stessa, e che poi dall’età postmindeliana fece sentire la sua influenza a Capri, nella Penisola e nei Picentini (come pure nelle due età successive, postrissiana e postwurmiana), nelle zone sedimentarie procedette con maggiore intensità, come già abbiamo più volte ripetuto da W ad E, raggiungendo i massimi e nel versante orientale della Penisola (data la sua particolare tettonica di zolle determinate e limitate da due serie di linee di frattura ortogonali fra di loro) e nell’interno (per la maggiore distanza dal mare), dove i lembi vallivi terrazzati del Matese ce ne offrono chiara testimonianza. Questi sono riducibili a tre livellai alti rispettivamente 800, 450 e 250 m., il primo dei quali si può far risalire alla fine del Plio¬ cene. — 125 — Al Dainelli ( Guida dell1 escursione al Mi tese) dobbiamo la esatta individuazione e l’accurata descrizione di tali lembi. Procediamo alla schematica elencazione di quelli che ci per¬ mettono di ricostruire la superficie più bassa, che si estendeva a un’altitudine media di m. 250. 1) Terrazzetta di m. 280, ubicata al punto di congiunzione delle colline che sbarrano la breve piana del Volturno, a monte di Ponte Annibaie, col fianco del M. Caruso. 2) Vecchia superficie risparmiata dall’azione regressiva dei torrenti, all'interno della fascia periferica dei monticelli quasi isolati di media altezza ed a forma addolcita, compresi tra la valle trasver¬ sale del Volturno e l’avvallamento di Maddaloni. 3) Piccola piana interna di un’altitudine oscillante fra i 240 e i 270 m. a NE del poggio della Madonna della Misericordia, dove sorge il villaggio di Mazzone. 4) Terrazzetta di 260 m. su’le pendici del poggio S. Silvestro, all’inizio delle cascate del Parco Reale, dietro Caserta. 5) Terrazza alta m. 225 lungo il fianco meridionale del Ma¬ tese e protendentesi verso la piana, tra il torrente L'Advento e il basso Titerno. 6) Lembo con l’orlo a m. 250, ai piedi meridionali del M. Acero, e continuantesi ai piedi della rocca di S. Salvatore Telesino e di colle Pugliano. 7) Lembi di analoga altitudine, che si protendono come propaggini del fianco meridionale del Matese, a ridosso del basso Calore. 8) Lembi di analoga altitudine riconoscibili lungo il piede sud-occidentale del Matese, fra S. Potito Sannitico e Sepicciano, in continuazione della zona di Auduni. 9) Breve ripiano alto m. 235, sporgente dalle superfici in¬ clinate delle conoidi, in regione Campolungo, oltre Raviscanina. 10) Sprone di Ailano. 11) Lembi riconoscibili ai due lati dello sbocco del Seie presso il Volturno. Il Dainelli, a proposito della serie collinare che sbarra la piana del Volturno a monte di Ponte Annibaie, e che, dopo le case De Marco e De Vita, si abbassa fino a m. 180 e poi si risolleva fino a 241 m. a Cajazzo e a 270 m. a S. Giovanni e Paolo, da dove dirama verso il Volturno con un’altitudine compresa fra i 250 e e i 270 m., si esprime nel modo seguente ; " Non è dubbio che — 126 — tutte queste sommità si raccordano in un’unica superficie originaria pianeggiante, solo lievemente declive dalle pendici dei prossimi mediocri poggi, che se ne sopraelevano, verso quello che può con¬ siderarsi l'asse idrografico percorso dal fiume maggiore, fra i 280 e i 200 m. Si noti che anche il poggio Mesarinola è elevato 246 m., e quindi deve rappresentare con la sua cima un resto di quella superficie: la quale, per successiva erosione esercitata dai fiumi, costituisce adesso una terrazza : chiamiamola la terrazza di Cajazzo Ora, non si può credere che forme terrazzate dovute alla sovra- incisione dei fiumi per lo spostato livello di base, che ha costretto i corsi d’acqua a riprendere l’erosione in profondità dopo quella laterale, seguita a un periodo di stasi, si possano localizzare ad una limitata regione: la spinta verticale indubbiamente dovè interessare una zona molto più ampia, specialmente se questa è costituita di terreni sedimentari e quindi non sovraimposta ad un focolare magmatico. Perciò, equiparando tutti i lembi ricordati, possiamo concludere che il movimento di emergenza, a cui si devono le terrazze della Penisola Sorrentina di 140, 150 e 230 m. di Capri di 150 m., dei Flegrei di 200 m. e del Picentino di 220 m. non si è localizzato nella zona esterna dei monti campani, ma ha proceduto con maggiore intensità anche nell’interno ; la maggiore distanza dal mare e indubbiamente le eventuali variazioni d' in¬ tensità hanno prodotto differenza di livello fra la zona esterna e la zona interna, per lo meno rispetto a Capri, in quanto tali dif¬ ferenze sono già notevolmente sensibili nella Penisela e nei Flegrei, ove le condizioni tettoniche dell'una e la presenza di un focolare magmatico negli altri facilitarono il dislivello, maggiormente note¬ vole se messo in rapporto ad una limitata superficie. Alle mede¬ sime conclusioni si giunge osservando altri lembi terrazzati nell'in¬ terno della Campania, che il Dainelli rintraccia e descrive, dei quali il più esteso e caratteristico è dato dalla terrazza di Castello di Alife, che ci permette di ricostruire un livello maggiore del precedente, e cioè alto m. 450, equiparabile con quello di Capri di m. 270-290, con quello della Penisola di m. 230-280-340 (che nel ripiano sottostante al Corpo di Cava raggiunge eccezionalmente i m. 400), e con quello del Picentino di 320. Manca nei Flegrei per le già esposte ragioni un livello corrispondente. Alle vecchie superfici indicate dal Galdieri a circa m. 600 nel Picentino può corrispondere il livello pliocenico del Matese di m. 800, a cui naturalmente non può corrispondere nessun livello - 127 — nei Flegrei, in quanto l'attività eruttiva è posteriore, nè in Capri. E' vero che, avendo presente la maggiore intensità di spostamento verticale man mano che dalla linea di costa si procede verso l'in¬ terno, a questo alto livello si potrebbero far corrispondere le “ tracce di spianamento „ osservate dal Rovereto sulla sommità del Solaro (m. 580 circa); ed infatti lo stesso Dainelli finisce col- l'indulgere a tale tesi, quando osserva che la " piccola incisione valliva, che termina pensile e m rta sul ripidissimo fianco setten¬ trionale „ del Solaro, potrebbe essere il reliquato di una terrazza spianata dal mare pliocenico, che formò la terrazza di circa m. 600 nel Picentino, e di m. 800 nel Matese. La differenza di 20 m. fra Capri e il Picentino e di 220 m. fra Capri e il Matese potrebbe dipendere, sempre secondo il Dainelli, dal fatto che Capri era più soggetta nella sua prima emersione all’azione del mare di quanto fossero la valle del Picentino e il Matese ; però è anche vero che lo stesso Dainelli determina il limite del mare pliocenico, seguendo gli indizi offerti dalla Penisola, dal Picentino, e dallo spianamento dei monti dell'agro nolano, proprio a 600 m., per cui in quel periodo l'isola di Capri doveva essere ancora sommersa di 20 m. al di sotto del livello marino, cioè nella condizione di uno scoglio sub¬ acqueo non ancora emerso, benché prossimo ad emergere. Con¬ cludiamo, dunque, che tracce di spianamenti mai ini operati dal mare pliocenico non si rinvengono nè in Capri, nè nella Penisola, e che tutte le forme terrazzate ivi esistenti o sono vallive o di abrasione, postpliocenica, ma tanto sulle une quanto sulle altre agì il solleva¬ mento quaternario, per cui, dopo il massimo abbassamento pliocenico^ le terre dell’Italia meridionale iniziarono la loro emersione, che tranne periodi di pause e di oscillazioni del fondo, si è continuato durante le fasi interglaciali del Quaternario e che si continua tuttora, come dimostrano marmitte, pozzetti verticali, spianamenti, insabbiamenti del tratto inferiore dei corsi torrentizi lungo tutto il litorale cam¬ pano, o, ancora meglio, lungo tutte le nostre coste, anche là dove le oscillazioni del fondo sono in atto. Testimoniano siffatte oscilla¬ zioni, lungo il litorale tirreno, le osservazioni del Niccolini e del Gunther per il tratto compreso fra Amalfi e Gaeta, a cui si devono aggiungere quelle dell' Issel per la regione pontina, del De Lo¬ renzo e del D’Erasmo per la piana di Pesto. Ravello, luglio 1941. Nuova osservazione riguardante Forigine spo- rangiale dei Conidii del genere “ Aiternaria „ e affini. del Socio Maria Fiore (Tornata del 7 novembre 1941). In una mia nota presentata al Nuovo Giornale Botanico Ita¬ liano (1) e quindi in un mio ulteriore lavoro di prossima pub¬ blicazione (2) mi è stato dato di far rilevare a proposito di un'al- tenariosi interessante il ciclo biologico di un'emiasco, come, per patogenità dovuta ad ambiente insolito (oscurità), sia in realtà esatta la veduta suggerita da tempo da qualche Botanico (De Bary, Bre- feld etc.), secondo la quale il conidio va considerato riduzione, trasformazione di entità sporangiali, nel mio caso di affinità sapro- legniacea. Ma già varii anni or sono mi sono imbattuta in una ri¬ cerca a conclusione molto simile, la quale, però, soltanto ora, ri¬ considerandola, mi si è del tutto chiarita e non mi sembra inutile farne cenno a complemento e ribadizione di quanto ho cercato illustrare e sostenere nelle pubblicazioni citate. Essendomi stato regalato uno di quei frutti di Lagenaria vulgaris i quali, svuotati, come è noto, possono servire per con¬ tenere liquidi perchè forniti di pericarpo legnoso, l'avevo messo (1) Fiore M. — Di un Hyphomycetes della famiglia delle Dematiacae. - Nuovo Giornale Botanico Italiano, 1940, N 2, VXLVll. ( 2 ) Fiore M. — Di un emiasco emiparassita su Opuntia Ficus indica. 1941 • 12 130 — da parte con l'intenzione nel fatto di utilizzarlo a tal uso; senonchè dopo qualche mese nel riprenderlo lo trovai leggerissimo; si era vuotato da sé , o per meglio dire l'aveva svuotato, distruggendone completamente i tessuti interni, qualche micelio. Il tegumento in¬ fatti, a ben osservare, era ricoperto di una polvere brunastra che osservata a microscopio risultò costituita da ammassi di conidii tipo " Aiternaria (Fig. 1). In bevute, su terreno patata-agar-glucosio insemenzai di tali conidii e facilmente ne ottenni la germinazione e indi florido mi¬ celio con sporificazione sempre tipo " Alternarla „ costituita da conidii brunasti, muriformi, con nno o più apici germinativi, e di dimensioni piuttosto relativamente grandi (u 15-18 x u 4-6 ; 10-12 x 4-5) ; senonchè avendo riposte le colture in una scatola, e quindi del tutto al buio, e avendole riesaminate dopo qualche settimana, con mia meraviglia notai una strana metamorfosi con¬ sistente nel fatto che la maggior parte dei conidi appariva tra¬ sformata, invertita in piccoli organi di forma lagenata-otriforme con piccola apertura apicale, circolare, con diametro di u 3: altri¬ menti in entità a funzione sporangiale. — 131 - Pertanto dalla detta apertura apicale in luogo di spore venivan fuori esili strutture rettangolari ben definite, come segmenti di ifa (u 2 4/f per 3). L'oscurità, sicché, aveva creato l'avverarsi di una trasforma¬ zione regressiva per cui il tubo o i tubi germinativi del conidio invece di fuoruscire dall'apice o dalle pareti del conidio rimane¬ vano racchiusi nell’interno di esso e si trasformavano, germinando e segmentandosi, in entità che avrebbero subito avverata la pro¬ pagazione del tallo, fuoruscendo a mò di sporangiospore dal pic¬ colo sporangio otriforme costituitosi al posto del conidio tipo " Alternarla „ (Fig. 2). In questo caso, sicché, diversamente dall’altro a cui ho accen¬ nato nel quale la trasformazione regressiva si spingeva fino alla formazione di vere indipendenti spore che fuoruscivano dall’apice e dalle pareti del conidio-sporangio, la manifestazione patogenica è nel presente caso di valore regressivo minore, e del tutto sui generis , le sporangiospore rimanendo nell'interno del conidio-spo¬ rangio, in un'unico o più simplasti, senza individualizzarsi; ma in ogni modo non meno preziosa perchè conduce ad un’ulteriore considerazione riguardante appunto la veduta già da me sostenuta sull'affinità filetica del genere li Aiternaria „ e affini, ed essa è che appunto negli Oomycetes , filum saprolegniaceo (Saprolegnia) che si nota la caratteristica che le parti del tallo posseggono autono¬ mia, perchè frammenti staccati di esso possono rigenerare un nuovo tallo. In conclusione, quindi, benché il presente caso mostri una patogenità legata a un ricordo ancestrale filetico alquanto diverso da quello da me descritto nelle accennate pubblicazioni, mi sembra tuttavia che in ogni modo anzi ribadisce l'origine sporangiale del conidio e completa le osservazioni e considerazioni fatte riguar¬ danti l'origine saprolegniacea del genere " Aiternaria „ e affini. riassunto E' illustrata una peculiarità morfologica riscontrata in un' ifomicete appar¬ tenente al genere Aiternaria per cui a conclusione viene risostenuta l'origine sporangiale da Oomycetes ( Saprolegniaceae ) dei conidi tipo " Aiternaria „ e -affini. Bollettino della Società dei Naturalisti in Napoli Rendiconti delle Tornate ed Assemblee Generali. (PROCESSI VERBALI) PROCESSI VERBALI DELLE TORNATE ORDINARIE ED ASSEMBLEE GENERALI Tornata ordinaria del 3 luglio 1941. Presidente : ff. Pierantoni Segretario : Salti Sono presenti i soci : Antonucci, Trotter, Zirpolo, D’Erasmo, Co- corullo, Patroni, Maione, Rodio e Fiore. La seduta è aperta alle ore 16. Il Presidente dà comunicazione ai soci delle pubblicazioni perve¬ nute in dono. Prende la parola il socio Zirpolo che legge un lavoro del socio Sorrentino dal titolo : Cenno illustrativo sulle terre decoloranti, e ne chiede a nome dell’autore la pubblicazione nel Bollettino. La socia Fiore legge un suo lavoro dal titolo : A proposito di in¬ dizi di Flora cretacea , e ne chiede la pubblicazione nel Bollettino. La seduta è tolta alle ore 17 dopo essere stato letto ed approvato il presente verbale. Tornata ordinaria del 20 Agosto 1941. Presidente : ff. Pierantoni Segretario : Salfi Sono presenti i soci : Zirpolo, Patroni, Platania, Ruggiero, Rodio, Antonucci, Castaldi, De Lerma. La seduta è aperta alle ore 16. Il presidente dà la parola al socio Zirpolo che legge il seguente lavoro : Ricerche sugli Ctenofori e ne chiede la pubblicazione nel Bol¬ lettino. Il socio Castaldi legge un lavoro dal titolo : Le terrazze della penisola sorrentina e ne chiede la pubblicazione nel Bollettino. La seduta è tolta alle ore 17 dopo essere stato letto ed approvato il presente verbale. IV Tornata ordinaria del 7 Novembre 1941. Presidente : ff. Pierantoni Segretario : Salti Sono presenti i soci Zirpolo, De Lerma, Fiore, Patroni, Biondi, Celentano, Alfano. La seduta è aperta in seconda convocazione alle ore 16,30. Il Presidente comunica che il Ministero dell’Educazione Nazionale, fra breve, emetterà il Decreto con il quale è ricostituita la Società dei Naturalisti con altro Statuto e altro Regolamento. Il Presidente dà la parola alla socia Fiore che legge un lavoro dal titolo : Nuova osservazione riguardante l’origine sporangiale dei eonidi del genere « Aiternaria » e affini , e ne chiede la pubblicazione nel Bollettino. Il socio Zirpolo legge un lavoro dal titolo : Ricerche sulle forme ipomeliche di^Anseropa membranacea , e ne chiede la pubblicazione nel Bollettino. La seduta è tolta alle ore 17.30 dopo essere stato approvato il presente verbale. — V — Acireale » » Aosta Bologna » Bellinzona Brescia Cagliari Catania Città del Vaticano » Ferrara Firenze » » Elenco dei cambi EUROPA Italia Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti di Acireale. Rendiconti id. id. Bollettino della R. Stazione Sperimentale di agru¬ micoltura e frutticoltura. Société de la Flore Valdòtaine Rendiconti della R. Accademia delle Scienze Bollettino dell’ Istituto di Entomologia Agraria Bollettino del Laboratorio di Entomologia R. Isti¬ tuto Superiore Agrario. Società Ticinese di Scienze Naturali. Commentari dell’Ateneo. Società dei cultori delle Scienze Mediche e Natu¬ rali. Scritti Biologici raccolti dal Prof. Luigi Castaldi. Accademia Gioenia di Scienze Naturali. Atti dell’Accademia Pontificia dei Nuovi Lincei. Memorie id. id. Accademia di Scienze Mediche e Naturali. Archivio per l’Antropologia e l’Etnologia. Nuovo Giornale Botanico italiano. Regia Stazione di Entomologia Agraria. L’Universo. Istituto Geografico Militare. VI Genova » » » Milano Modena Napoli » » Padova Pavia Perugia » Pisa Portici Postumia Roma » — Società Entomologica italiana. — Memorie id. id. — Atti della Società di Scienze e Lettere. — Bollettino dei Musei di Zoologia e Anatomia com¬ parata della R. Università. — Museo Civico di Storia Naturale « Giacomo Do- ria » Annali. — L’industria saccarifera italiana. — Atti della Società Italiana di Scienze Naturali e Museo Civico di Storia Naturale. — Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere. — Atti della Società dei Naturalisti e Matematici. — Sezione Autonoma del Genio Civile Ministero Lavori Pubblici. — Bollettino Orto Botanico. # — Rendiconti della R. Accademia delle Scienze fisiche e matematiche. — Annuario del Museo Zoologico della R. Università di Napoli. — Pubblicazioni della Stazione Zoologica. — Archivio Zoologico italiano. — Bollettino di Zoologia. — Rivista di Fisica, Matematica e Scienze Naturali. — Atti della Accademia scientifica veneto-trentino istriana. — Atti dell’Istituto Botanico «Giovanni Briosi», — Annali della Facoltà di Medicina e Memorie della Accademia Medico-chirurgica. — La Meteorologia pratica. — Atti della Società Toscana di Scienze Naturali. — Annali della R. Scuola Superiore di Agricoltura. — Bollettino del Laboratorio di Zoologia generale e Agraria. — Le Grotte d’ Italia. — Bollettino della R. Accademia Medica. — Atti della Società Italiana per il progresso delle scienze. — Bollettino dell’ Istituto del R. Ufficio Geologica Italiano. VII Roma » » ■» Resina Rovereto Salò Sassari Scafati Torino » Trento Trieste Venezia Verona Addis Abeba Bruxelles Louvain Helsinki Cherbourg Nancy — Rivista di Biologia Coloniale. — Istituto Internazionale di Agricoltura, — R. Società Geografica Italiana. — La conquista della terra. — Centro Alpinistico Italiano. — Memorie R. Comitato Talassografico Italiano. — Bulletin Vulcanologique, R Osservatorio Vesu¬ viano. — Museo Civico. — Memorie dell’Ateneo. — Studi sassaresi. — Bollettino tecnico della coltivazione dei tabacchi — Atti della R. Accademia delle Scienze. — Urania. — Studi trentini di Scienze Naturali. — Bollettino della Società Adriatica di Scienze Na¬ turali. — Ateneo Veneto. — Atti e Memorie dell’ Accademia di Agricoltura. Scienze, Lettere, Arti e Commercio. Boll, di Idrobiologia, Caccia e Pesca dell’ A. O. I. Belgio — Société Royale Zoologique. — Travaux biologiques de l’ Institut. J. B. Carnoy. Finlandia — Memoranda Societatis prò Fauna et Flora fennica. — Acta Botanica fennica. — Societas prò Fauna et Flora fennica. — Societas Zoolog - Botanica fennica Vanamo. Francia — Société nationale des Sciences Naturelles et Ma- thématiques ( Memoires ). — Société des Sciences et Réunion biologique ( Bul¬ letin des Séances). Vili Nantes — Société des Sciences Naturelles de l’Ouest de la Nice Paris France ( Bullettìn ). — Riviera Scienfifique. — Museum d’Histoire Naturelle (. Bulletin ). » — L’Astronomie. » — Société d’Océanographie de France. » — Bulletin de la Société Zoologique de France. Berlin Germania — Verhandlungen des Botanisches Vereins der Pro- venz Brandeburg. » — Sitz. der Gesellsch. Naturforsch. Freunde. Bonn — Naturshistorisches Verein der preussischen Rhein- lande Bruno Frankfurt a M. Giessen — Verhandl. des Naturforsch. Vereins. — Senckenbergiana. — Bericht der Oberhessischen Gesellschaft fùr Natur. und Heilkunde. Graz — Mittheilungen des Naturwisseiischaftlichen Vereins fùr Steiermark. Halle a S. — Kaiserlich Deutsche Academie der Naturfoscher Hamburg (Leopoldina). — Verhandlungen des naturwissenschaftlichen Ve¬ reins. » — Abhandlungen aus dem Gebiete der Naturwissen- schaften. Prague Casopis Ceskoslovenske spolecnesti entmologické (Acta societatis entomologicae Cechosloveniae), » — Bulletin international. Classe des Sciences mathé- » matiques, Naturelles et de la Médicine. — Rozpravy ceske akademie ved a umenf. — Société Royale des Sciences de Boheme ( Memoires ) » — Akademie Masaryk du Travail. » Rostock — « Lotos » Naturwissenschftliche Zeitschrift. — Archiv des Vereins der Freunde der Naturgeschi- chte in Mecklenburg. Wien — Verh der K.-K. Zool. - bot Gesellschaft. — Annalen des Naturhistorischen Hofmuseum. IX Inghilterra Cambridge » Loadon — Philosophical Society ( Proceedings , Transactions) — Biological Review. — Royal Society {Proceedings, Reports of thè Slee- ping Sickness Commission). Plymouth — Marine Biological Association of thè United King- dom {Journal). Lettonia Riga — Acta Orti Botanici Universitatis Latviensis. Lituania Kaunas — Mémoires de la faculté des Sciences de l’Uni- versité de Lithuanie. Norvegia Tromsòe — Tromsòen Museum. Olanda Amsterdam — Academie Royale {Mémoires). Polonia Warszaw — Acta Societatis Botanicorum Poloniae. » — Annales Musei Zoologici Polonici. » — Fragmenta faunistica Musei Zoologici Polonici. Portogallo Lisbona — Bulletin de la Société Portugaise des Sciences Naturelles. Coimbra — Memorias e estudios do Museo Zoologico. — Socedad Broteriana {Boletin). Spagna Cartuja — Boletin mensuel de la Estación Sismologica. X Svezia Upsala Lumi — Geological Institution of thè University of Upsala. — Acta Universitatis Lundensis. » — Kungl. Fysiografiska Sàllskapet I Lund Fòrhan- dlinger. Tokyo ASIA Giappone — Annotationes Zoologicae japonenses. — Japanese Journal of Zoology ( Transactions and Abstracts. Kyoto — Memoires of thè college of Science Kyoto impe¬ riai University. Series A and Series B. Lima AMERICA Perù — Boletin de la Sociedad Geologica Stati Uniti Berkeley — University of California ( Publications in Zoology , Entomology Bulletin). Boston Brooklyn Cihaphell Hill Mncinnati IJinneapolis Crbana — Society of Naturai History ( Proceedings ). — Cold Spring Harbor Monographs. — Elisha Mitchell scientific Society {Journal). — Bull, of thè Lloyd Library of Botany etc. — The University of Minnesota. — Illinois biological Monographs. T> Madison — Bull, of thè State Laboratory of Nat. Hist. Wisconsin Academy of Sciences, Arts and Lettres {Transactions). — Wisconsin Geological and Naturai History Survey {Bulletin). XI New York — Notre Dame Indiana — Philadelphia — Botanical Garden ( Bulletin ). The America Midland Natur. Academy of Naturai Sciences ( Proceedings Year Book ). Research Studies of thè State College of Wa¬ shington. cademy of Science ( Transactions ). » — Missouri Botanical Garden {Annual Report). Springfied Massachussets — Museum of Naturai History. New-Orleans — Louisiana State Museum. Tufts College (Massachussets) — Studies. Pullman, Washington- Saint Louis Washington Washington Woods Hole, Mass — New Haven, Conn — Montevideo United States Geological Survey {Annual Report ) U. S. Department of Agriculture. — Division of Ornithology and Mammalogy {Bulletin North American Fauna). Smithsonian Istitution ( Annual Report). U. S. National Museum {Bulletin). U. S. Department of Agriculture {Yearbook). U. S. Department of Agriculture — Bureau of Animai Industry ( Annual Report). Carnegie Institution of Washington ( Publications ) The Rockfeller Sanitary Commission for thè Era¬ dicatici! of Hookworm Disease. United States Bureau of Fischeries. Bulletin of thè marine biological laboratory. Tropical Woods. Uraguay Museo de Historia Naturai {Anales). Argentina Buenos Aires — Anales de la Sociedad Cientifica Argentina. Per quanto concerne la parte scientifica ed amministrativa dirigersi al Redattore del Bollettino Prof. G. ZlRPOLO presso la sede della Società Via Mezzocannone - R. Università - Napoli Direttore- Responsabile :* Prof. U. PIERANTONI — R. Università - Napoli. Stab. Tip. N. Jovene - Via Donnalbina 14 - Napoli.